Era gennaio, erano i giorni della merla. I pomeriggi, il canale satellitare trasmetteva i documentari prodotti dall’Istituto Luce, dedicati in prevalenza alla Shoah.

Una notte sognai la lagerstrasse. Era calcata da una marcia spaventosa di donne perlopiù, ricordo un paio di trecce bionde, tagliate di netto, di colpo, un cumulo di bambole di ceramica, scarpe e non ricordo cosa altro ancora. Queste donne marciavano, interrogandomi con il loro procedere allampanato. I volti si mischiavano in un unico sguardo. Mi svegliai, sapendo di tornare da un luogo preciso. Ogni anno la Giornata della Memoria sarebbe stato Levi, con i suoi libri, e i documentari dell’Istituto Luce.

Levi lo amai talmente, come Pavese (il manifesto del neorealismo), Levi è la letteratura dell’Olocausto, insuperabile, non perché altri testimoni abbiano raccontato meno, soltanto che Levi è il crinale, a lui è riconducibile la memoria, finanche quella degli altri, per trovarne conferma, nelle parole del saggista del narratore del poeta che evoca. Wstawac! Fu l’esortazione che mi perseguitò a lungo, immaginavo in quel tempo disumano la voce rabbiosa tuonare di baracca in baracca. Il grigio, la neve, le luci fioche, l’Orchestra di cadaveri ancora sulla lagerstrasse. Wstawac! Sentivo persino l’odore dolciastro, il lezzo dolciastro, che emanavano i camini. Credevo di saper riconoscere la puzza di un cadavere. Nedo Fiano è uno degli ultimi sopravvissuti di Auschwitz, lo incontrai un giorno ventoso di gennaio. Quando mi ha presentato la sua compagna, ebbi un sussulto; la chiamava compagna, non immaginavo che fosse la sua divisa a righe, piegata in valigia. Mi ha raccontato della malattia del campo e quando mi raccontava aveva un sorriso pauroso – che cos’era? -aveva forse il suono del singhiozzo, il calco del terrore.

La malattia del campo aveva colpito i sopravvissuti, i salvati sui sommersi, era il niente che d’improvviso accusavano sulla vita, il niente che bruciava veleni silenziosi nello spirito dei sopravvissuti. Il niente. E diceva Nedo Fiano che pure quando nel sorriso, nella consuetudine, nella straordinaria normalità che gli fu concessa dopo Auschwitz, tornava a pensarsi uomo come gli altri, il male lo coglieva insidioso e allora era di nuovo l’haftling, numero A5405. Il suo racconto non tradì mai l’emozione. La smorfia sembrava un sorriso, ho capito dopo che la forma del male affiorava, come un esantema, imprevedibile eppure noiosa. Wstawac.

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