Se la si compara con quel che sta accadendo in altre parti del mondo – e l’Ucraina è il primo caso che balza alla mente – la protesta dei ‘cuentapropistas’ di Holguín (vedi video) può apparire poca, anzi, pochissima cosa. E – sebbene, proverbialmente, le apparenze ingannino – è più che possibile che, in effetti, poca, anzi, pochissima cosa sia davvero.

Questi i fatti (ovviamente ignorati dai media locali, ma diffusi nelle ultime ore, urbi et orbi, via Internet): giovedì scorso, nella città di Holguín, capitale dell’omonima provincia nel nord-est dell’isola (ai turisti nota soprattutto per le splendide spiagge di Guardalavaca), alcune centinaia di lavoratori in proprio – per lo più venditori ambulanti – hanno chiassosamente marciato per le vie del centro protestando contro le restrizioni burocratiche che impediscono loro di lavorare come vorrebbero (e potrebbero, stando alle nuove leggi).

Niente di che: molte grida di protesta, qualche spintone e, pare, una manciata di arresti…Nulla, in ogni caso, che suggerisca, anche solo per remote assonanze, l’imminente arrivo di ‘primavere’ di sorta. Un po’ perché le dimensioni degli eventi non lo consentono, e un po’ perché le sorti d’altre e recenti primavere, tutte rapidamente discioltesi in sanguinosi ed interminabili inverni, hanno ormai trasformato in un’espressione di malaugurio questa, un tempo luminosa, metafora stagionale. Una cosa è tuttavia certa: nella morta gora della Cuba castrista – dove, per molte ragioni, nel mezzo secolo abbondante della “revolución” il dissenso ha sempre preso, non la via della piazza, bensì quella della fuga dal grigiore d’un unanimismo senz’anima – anche un piccolo atto di ‘rebelión callejera’ rappresenta un fatto nuovo ed insolito. Un fatto, dal quale si può, con ragionevole certezza, ricavare almeno una modesta, ma significativa profezia. Se i molto timidi ‘aggiornamenti’ del socialismo imposti negli ultimi anni da Raúl non sono, come già furono in passato, che meri espedienti tesi a tenere a galla un economia da troppi anni basata su principi di pura sopravvivenza, il regime dovrà prima o poi (più prima che poi) fare i conti con le forze nuove e con le nuove contraddizioni che il cambiamento ha liberato.

In che modo? Stando alle cifre fornite lo scorso dicembre dalla Asamblea Nacional del Poder Popular i lavoratori “en cuenta propria” – o, per l’appunto, ‘los cuentapropistas’ – sono oggi 444,109. Ed il loro numero va aumentando in ragione, grossomodo, d’un 10 per cento all’anno. Sono molti? Sono pochi? E soprattutto: quanto profondi sono i cambiamenti che la presenza di questi (relativamente) nuovi protagonisti economici e sociali preannuncia nel più prossimo (e meno prossimo) futuro?

Rispondere non è facile. Ma un paio di cose si possono dire. La prima: i ‘cuentapropristi’ sono sicuramente pochi se valutati in rapporto alle esigenze macroeconomiche d’un paese – Cuba, per l’appunto, – che ha il disperato bisogno di ridurre (d’almeno un milione e mezzo d’anime, stando a quel che lo stesso Raúl ha a suo tempo calcolato) il numero dei lavoratori alle dirette dipendenze d’uno Stato tanto onnipresente quanto bolso, inefficiente e (talora ridicolmente) autoritario. E sono sicuramente, i ‘cuentapropisti’, non solo molti, ma decisamente ‘troppi’ rispetto alle paure, ai ritardi ed al plumbeo istinto d’autoconservazione di quel medesimo Stato, da un lato immancabilmente destinato a crollare sotto il proprio peso e, dall’altro, troppo pesante – mentalmente pesante – per riuscire a muoversi in direzione di qualsivoglia futuro.

I molto modesti ‘disordini’ di Holguín sono, al di là delle loro concrete dimensioni, molto potenzialmente importanti proprio perché ci raccontano di questa intrinseca contraddizione. Quella d’un regime che ha bisogno di cambiare (e che sta, in effetti, cambiando), ma che, avendo canonizzato sé stesso (peccato, questo, comune a tutte le forme di socialismo più o meno reale) non può neppure permettersi, lessicalmente parlando, di chiamare ‘riforma’ quel che cambia, preferendo, invece, dibattersi nel limbo d’un ‘aggiornamento del socialismo’ che, ad ogni passo, smentisce se stesso.

In concreto: quel che resta del castrismo ha – e non da oggi – un’assoluta necessità di riconsegnare all’iniziativa privata parte d’una economia asfissiata dalla sua stessa, sbrindellata ubiquità. Ma, nel soddisfare questo impellente bisogno, non riesce, come in un pavloviano riflesso, a resistere alla tentazione di limitare e di punire, con restrizioni assurde, o con insensate tassazioni, le forze che ha evocato per salvare se stesso. Vuole, il governo cubano, liberare la sua ‘plantilla’ statale dal peso di 1.500.000 lavoratori, ma nel contempo impone ai ‘cuentapropristi’ tasse che percentualmente aumentano a seconda del numero di dipendenti che assume. Più bene mi fai, più io ti castigo.

Assurdo? Certo. Ma non tanto assurdo se giudicato nell’ottica d’un regime che nulla vuol cedere in termini di potere politico. E che con orrore contempla, al di là delle proprie necessità pragmatico-materiali, il crescere di forze sociali che, spinte dalla propria indipendenza economica, possano rompere lo schema dell’assoluta obbedienza fin qui reclamata in cambio del soddisfacimento (spesso fittizio) di tutte le esigenze di base.

Verrebbe da dire, parafrasando il Karl Marx del Manifesto (un libro che, anche nel socialismo ‘aggiornato’ di Raúl, è parte della filosofia di Stato e che, per questo, continua ad esser studiato nel più pedestre dei modi): ‘Un spettro s’aggira per Cuba: lo spettro del cuentapropismo…’. Come finirà nessuno può dirlo. Ma di sicuro qualcosa, nel regno dei Castro, è cominciato…

 

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