Il governo Letta ha in progetto di collocare sul mercato il 40 per cento di Poste italiane. Non si tratta di una privatizzazione vera, dato che lo Stato intende mantenerne il controllo, tuttavia soggetti privati, istituzionali ma anche risparmiatori e dipendenti dell’azienda, saranno invitati a sottoscrivere quote azionarie. E non lo faranno per benevolenza bensì motivati dall’attesa che essa generi redditività e distribuisca dividendi.

Questa cessione parziale è resa possibile dalla grande trasformazione dell’ultimo quindicennio che ha visto il passaggio da inefficiente azienda pubblica del recapito, che chiudeva i bilanci in forte perdita, a primaria azienda di servizi bancari e assicurativi che realizza utili crescenti, ai vertici per redditività tra le omologhe europee. Gli aspiranti sottoscrittori potranno per queste ragioni dormire sonni tranquilli o è opportuno che si pongano qualche domanda? Da cosa è determinata la redditività di Poste? Dalla loro capacità di stare sul mercato, certificata dalla concorrenza? Questo vale forse per i servizi assicurativi ma non per gli altri due segmenti più rilevanti. Nel recapito, che non ha mai svolto un ruolo di rilievo nel processo di riorganizzazione, l’azienda perde da sempre, nonostante rilevanti compensazioni pubbliche per il servizio universale che in molti Paesi europei non vengono concesse e nonostante l’Italia abbia recepito le direttive comunitarie di settore mantenendo la concorrenza fuori dal mercato il più a lungo possibile. Nel bancoposta, il settore che ha trainato la redditività dall’inizio del decennio 2000, essa dipende per una quota rilevante da un unico cliente, per di più pubblico, la Cassa Depositi e Prestiti per la quale raccoglie il risparmio postale.

La lezione del caso Alitalia
La redditività delle Poste si basa su tre pilastri fondamentali, nessuno dei quali è di mercato: compensi pubblici per la raccolta del risparmio, compensazioni pubbliche per il servizio universale e il fatto di svolgere servizi bancari utilizzando personale che gode di un contratto molto meno favorevole di quello dei bancari. Poiché solo lo Stato può garantire la permanenza nel tempo di questi tre pilastri, la privatizzazione parziale avrebbe per oggetto non un’azienda di mercato bensì un’azienda a redditività di Stato, un unicum senza precedenti nella storia delle economie occidentali. Inoltre il controllo resterebbe saldamente pubblico e dunque lo Stato potrebbe continuare a incaricarla di mission che col mercato non hanno nulla a che fare, come l’ingresso in Alitalia. I 75 milioni di euro conferiti alla già privata compagnia di bandiera non hanno nulla a che vedere con nessuno dei già troppi segmenti di attività in cui l’azienda è impegnata e nel resto del mondo le sole aziende di recapito a possedere flotte aeree sono i grandi corrieri espresso, ma si tratta di cargo non di aerei passeggeri. Inoltre, dato il modello di business strutturalmente in perdita di Alitalia, in quanto centrato su collegamenti a breve raggio insidiati dai vettori low cost, si tratta di soldi che verranno persi con certezza in pochi mesi. Come si sposa questa scelta con quella della privatizzazione parziale?

Nella tradizione europea inaugurata in Gran Bretagna dai governi di Margareth Thatcher le privatizzazioni sono consistite nel passaggio al mercato della proprietà di aziende che erano già divenute di mercato per comportamenti e regole. Da esse lo Stato è interamente uscito sino a non possederne più neanche un’azione. Le privatizzazioni italiane degli anni ’90 non hanno seguito un identico percorso: nei casi più rilevanti lo Stato non ha mai ceduto il controllo (Eni, Enel, Finmeccanica) e quando lo ha fatto non ha provveduto preventivamente ad attivare adeguatamente il mercato (liberalizzare prima di privatizzare) o, nei casi di concorrenza impossibile, ad attivare almeno una robusta regolazione indipendente (settore autostradale). Si sono fatte privatizzazioni senza mercato o privatizzazioni yo-yo, in cui è rimasto un saldo legame di controllo o almeno d’influenza (l’impresa va verso il mercato ma è sempre in grado di essere richiamata indietro).

Tuttavia in tutti i casi passati almeno la redditività di queste imprese (persino Alitalia) è stata in larga parte determinata da variabili di mercato, non da garanzie pubbliche. La vendita parziale di Poste vedrebbe invece in contemporaneamente una serie di caratteri negativi, mai riscontrati prima neppure in Italia: resterebbe azienda di Stato; resterebbe azienda protetta nel mercato in virtù delle regole ad essa molto favorevoli adottate in sede di recepimento della terza direttiva postale (mentre in precedenza era protetta dal ‘mercato’); la sua redditività dipenderebbe esclusivamente da rapporti e scelte pubbliche, come ora, ma in più essa dovrebbe essere garantita, per non deludere gli azionisti privati, mentre ora non vi è questa esigenza. Cosa c’entra il mercato in tutto questo? Nulla. Quali incentivi avrebbe l’azienda a scelte efficienti? A soddisfare i consumatori? A far lavorare adeguatamente i dipendenti? A remunerarli secondo produttività? Nessuno. Purtroppo, per come si sta delineando, la soluzione di vendita parziale di Poste appare, a chi crede nella capacità dei mercati di concorrenza di generare benessere collettivo, una soluzione persino peggiore dell’attuale proprietà totalmente pubblica.

*professore di Scienza delle Finanze alla Bicocca di Milano

da Il Fatto Quotidiano del 24 gennaio 2014 (aggiornato da Redazione web il 24/01/2014)

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