Presto sarà più facile per gli stranieri trovare lavoro in Giappone. Ancora non si hanno dettagli sulle politiche che verranno implementate, ma il governo giapponese sembra avere ben chiaro che deve fare qualcosa per rimediare all’attuale calo di forza lavoro. Con una popolazione che invecchia più rapidamente che negli altri paesi del mondo, e il 25 per cento che ha già compiuto 65 anni, il Giappone ha bisogno di lavoratori. Un problema sempre più avvertito che rischia di mettere in pericolo l’uscita del paese del Sol Levante da due decenni di stagnazione economica.

Per tenere il passo dei vicini asiatici, e soprattutto della Cina, il governo di Shinzo Abe ha trovato l’accordo su alcune linee guida da convertire entro giugno in misure concrete. In primo luogo, le aziende giapponesi saranno incentivate ad assumere lavoratori e apprendisti, in particolare per posizioni in cui è richiesta un’alta specializzazione (i cosiddetti kodo jinzai). Parallelamente, Abe intende affrontare la questione femminile: più investimenti da parte dello stato negli asili per favorire il reinserimento nel lavoro delle donne con figli. La questione è delle più pressanti: secondo un rapporto sulla parità tra i sessi presentato al World Economic Forum a novembre 2012, oltre il 60 per cento delle donne giapponesi ha lasciato il lavoro dopo il primo figlio.

Gli effetti sperati della nuova fase della “Abenomics” sono diversi: innanzitutto rimediare al declino numerico dei lavoratori che rispecchia quello demografico iniziato nel 2005. In secondo luogo, aumentare il gettito fiscale: più lavoratori, più tasse che vanno nelle casse dello Stato che deve far fronte a un debito pubblico superiore al 200 per cento del Pil. Infine, e questo è l’obiettivo primario, tornare a crescere. La direzione intrapresa pare quella giusta e conferma in realtà un trend osservato già da tempo.

Da qualche anno Tokyo cerca di attirare determinate categorie di immigrati: molte università giapponesi stanno puntando ad accaparrarsi i migliori talenti soprattutto nel settore dell’accademia, della ricerca e del management, favorendo il loro ingresso preferenziale e la loro permanenza in Giappone grazie a un sistema di valutazione e assegnazione di un punteggio (almeno 70) introdotto a maggio del 2012. Inoltre, dal 2008 esistono accordi specifici all’interno di accordi economici quadro tra Giappone, Indonesia e Filippine per concedere visti di lavoro a infermiere e badanti da impiegare nel settore dell’assistenza agli anziani. Tuttavia, una volta entrati non si ha la certezza di poter rimanere. Per gli stranieri inseriti nella categoria di kodo jinzai ottenere 70 punti è complesso.

Per le badanti e infermiere invece l’ostacolo più grande è soprattutto la lingua: per restare in Giappone bisogna superare un esame di abilitazione in giapponese entro tre anni dall’ingresso nel paese. Finora, solo una minima percentuale di queste lavoratrici è riuscita a mantenere il lavoro. Le altre, la gran parte, sono state rimpatriate. È probabile quindi che il governo Abe possa prendere in considerazione l’ipotesi di facilitare gli esami e ridurre così i rimpatri. C’è da credere che se l’apertura ci sarà, sarà relativa e graduale. La disoccupazione è ai massimi (4,5 per cento) e il governo punta a rendere più flessibile il mercato del lavoro. In una situazione del genere, il senso di insicurezza dei lavoratori giapponesi potrebbe aumentare e diventare efficace strumento politico per le forze politiche più nazionaliste e conservatrici.

di Marco Zappa

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