Per quelli della mia età Abbado è stata una tranquilla certezza. Era il dato di fatto di una grandezza misurabile. La realtà è che mi sembrava l’ovvio di gran classe. Abbado è bravo, sembrava un ritornello.

E in fondo sembrava sempre ci fosse un ma…Finché non mi immersi nel suo Mahler. Fu la rivelazione. La Sesta soprattutto, quella di Lucerna, che ancora si può vedere anche in un malridotto video su Youtube e che è stata pubblicata in Blu-ray.

La gigantesca Sesta, uno dei vertici del mondo mahleriano, il picco tragico dell’uomo che sa di dover morire, inseguito dalla malattia, la tragedia dell’uomo del Novecento carico di sciagure che noi avremmo visto nella storia e che Mahler solo intuì. Abbado non ne estremizza i contrasti, una lettura, della tragica sinfonia, carica di vita, intrisa di spasmodica voglia di vivere, anche quando nel quarto movimento la partitura si inoltra correndo in un sentiero che va a precipizio contro i 3 fatali colpi di martello: salire in vetta, Icaro Novecento per inabissarsi giù. Abbado l’ha fatto come nessuno, le ali le ha sempre portate salve a terra, regalandoci i voli, i sorrisi del suo volto mentre si arrampica per quattro volte durante il finale della impervia Sesta e sprofonda come per una gioia nietzschiana della distruzione, perché anche quella sapeva essere vita.

Da quel momento ho potuto rileggere tutto Abbado, partendo da quella Sesta. Il resto superbo del suo Mahler, quello consegnato al disco più volte, con l’orchestra di Chicago e poi con i Wiener e i Berliner. La Nona eseguita a perdifiato, perché il maestro era per i tempi mercuriali, lontano dal titanismo un po’ trombone di certa tradizione assopita di teutonica memoria, dove si pensa che lento è profondo, anche quando è senza motivo. Quando ho capito quale fosse la sua lettura, la sua angolatura del mondo ho potuto entusiasmarmi persino per il suo Ravel. C’era il suo Beethoven elastico, snellito, non wagneriano. C’era il suo meditatissimo Schubert, letto fuori dalle lenti tardoromantiche, ricostruito sugli autografi, distillato alla luce di una orchestra traslucida. C’era il suo Brahms tragico, anticipazione senza scampo della Finis Austriae.

C’era il suo Novecento tutto memorabile, da Nono a Manzoni, da Schoenberg a Hindemith a Webern. C’era il suo incantevole Mozart, elegantissimo. E molto altro. In realtà il repertorio di Abbado era davvero sterminato. Da Bach fino a Stockhausen e Nono, passando per tutta la grande musica strumentale europea ottocentesca, ha praticamente inciso tutto, sempre con un suo particolare fascino, in un repertorio dove tra i ‘rivali’ ci sono nomi imbarazzanti per grandezza: Klemperer, Furtwaengler, Karajan, Bernstein….

Ha avuto il piacere di suonare molto con solisti di genio, cosa non scontata anche per i grandi direttori. La Argerich che ha saputo stimolare e contenere. La serie di concerti mozartiani incisi col grande Rudolf Serkin vecchissimo restano esemplari per chiarezza e ascolto del solista. E non si può non citare la collaborazione tra le più intense che disco ricordi: quella con Maurizio Pollini. L’altro se stesso, potremmo dire. L’integrale dei concerti beethoveniani, e poi Brahms, ma soprattutto i due concerti di Bartòk che restano pietre miliari in discografia. Sembrerebbe abbastanza anche per una vita abbastanza lunga. E invece Abbado è stato grande direttore d’Opera. E con quali risultati sono i dischi a testimoniarlo, oltre alla memoria degli spettacoli in Scala con l’amato Ronconi, per chi ha avuto la fortuna di vederli.

Verdi: il suo Boccanegra, opera sempre poco eseguita, il tavolo zoppo, tirato a lucido con un cast stellare, finalmente riscoperto. Il suo impressionante Macbeth con l’indimenticabile Shirley Verrett, unica Lady dopo la Callas. Il suo Rossini, il primo che ci abbia restituito il ritratto vivente di questo sfuggente enigma: Viaggio a Reims soprattutto e Cenerentola. E le incursioni wagneriane, poche ma significative. Lohengrin con un Domingo perfetto prima e poi Jerusalem in disco, incisione incandescente, senza pace con una Studer in stato di grazia. E il suo amore per l’opera russa, il bellissimo Boris, finalmente restituitoci in originale, pieno di quella rozzezza un po’ enfatica che ne fa tutto il fascino. Ma non si finirebbe di trascegliere perle dallo scrigno. In Italia lascia un rammarico immenso per le sorti dell’Orchestra Mozart, una delle tante da lui fondate, e le tante occasioni mancate per la perenne incapacità del nostro Paese di secondare istituzioni culturali prestigiose e sforzi anche se lui ci ha provato, testardamente, tutta la vita a infrangere il muro dell’ignoranza. Abbado anche in questo, in educazione civica, è stato un Maestro.  

Articolo Precedente

Abbado, la cultura è ricchezza da esportare. In Cina l’hanno capito, noi no

next
Articolo Successivo

Manoscritti nel cassetto/42: Mylar (Gianluca Garrapa)

next