“A man who knows the price of everything and the value of nothing”: è così che Oscar Wilde, in una celebre battuta de “Il Ventaglio di Lady Windermere” delinea i tratti dell’uomo cinico. Un aforisma di quelli folgoranti, che non ha smesso di riecheggiarmi in testa durante tutta la visione del nuovo film di Virzì, ‘Il Capitale Umano, di cui mi sembra possa rappresentare una sintesi quasi ottimale. L’interrogativo di fondo è tanto semplice quanto cruciale: cosa resta del singolo individuo, della sua dignità ed irripetibile unicità, in un mondo in cui il denaro e il profitto economico rappresentano il solo incontrastato parametro valutativo di persone e cose?
E come vive poi quella società che –per dirla appunto con Wilde– determina aritmeticamente il prezzo di tutto (vite umane incluse) senza conoscere l’intimo valore di nulla?

Compiendo un’operazione per certi versi analoga a quella del Tornatore de ‘La Migliore Offerta’, Virzì altera vistosamente i codici del proprio linguaggio cinematografico abituale, abdicando alla solarità mediterranea per i toni asciutti ed incalzanti della commedia noir. Ed è nell’ipotetica cittadina brianzola di Ornate che le vicende della facoltosa famiglia Bernaschi si intrecciano con quelle della middle class incarnata dagli Ossola. Già qui sceneggiatura e regia bypassano brillantemente la prima insidiosa trappola di un soggetto del genere: al cinema (ma anche in letteratura, teatro e affini) cosa c’è di più visceralmente detestabile dell’ingenuità delle rappresentazioni manichee, ovvero lo schieramento dei buoni da una parte e quello, altrettanto univoco e stereotipato, dei cattivi dall’altra, o –altra possibile variante– dei ricchi scintillanti e corrotti contrapposti ai poveri pulciosi e bonaccioni? Nulla di simile, per fortuna, nel film in questione: avidità, violenza, istinto di sopraffazione (e i loro contrari) albergano indistintamente, con modi ed accenti ovviamente diversi, in ciascuna delle categorie sociali coinvolte, dall’arrogante magnate allo zio tossico che cerca di derubare il nipote orfano e pregiudicato.

Sullo sfondo, quasi come una sorta di incombente “giardino dei ciliegi” contemporaneo, la vicenda di un teatro in rovina, destinato ad essere trasformato in supermercato o condominio. Ne scaturisce un affresco eloquente e corrosivo, molto ben recitato, denso di paradossi, ossessioni e nevrosi tipiche dei nostri tempi, che quasi quasi mi ricorda, per alcuni aspetti, l’American Beauty (1999) di Sam Mendes. Ad arricchire ulteriormente l’impianto narrativo, una costruzione molto rigorosa e geometrica del plot, raccontato per tre volte da altrettanti punti di vista diversi corrispondenti a tre dei personaggi principali: un espediente interessante, che consente tra l’altro al regista di sottolineare ripetutamente come realtà ed apparenza difficilmente coincidano, e come la medesima scena possa assumere un significato totalmente diverso col variare dell’angolazione visuale (ad esempio le apparenti effusioni tra i giovani Serena e Massimiliano, tra i quali è invece in corso una rottura).

Moltissimo si è già detto e scritto di quest’ultima opera di Virzì, che, nel bene e nel male, ha evidentemente centrato il bersaglio dell’immaginario collettivo, ma forse non si è sufficientemente sottolineato fino a che punto si tratti di un film convintamente ed integralmente femminista: le figure femminili principali sono tutte portatrici di empatia, cura, attenzione, capacità di comprensione profonda e realistica delle cose a fronte di una pletora di maschi confusi, incapaci di elaborare le emozioni, monopolizzati dagli obiettivi sbagliati, perdenti anche quando si illudono di vincere e così goffamente tormentati che ti verrebbe quasi voglia di difenderli.

Francamente pretestuosa e patetica appare invece la reazione polemica, a mezzo stampa, dei sedicenti “offesi” in nome e per conto dei cittadini brianzoli: al di là del fatto che il luogo di ambientazione assume qui una rilevanza secondaria, dato che il romanzo originario di Stephen Amidon, al quale il film è ispirato, si svolge nel Connecticut, e che il bersaglio vero coincide semmai con la società capitalistica nel suo complesso, quel che davvero sorprende è che i suddetti “offesi” stranamente non si sentano tali quando vengono rappresentati attraverso i peti, i rutti e le parolacce dei “cumenda” o di altri personaggi lombardi folkloristici dei cinepanettoni. Ma i newyorkesi, allora, dovrebbero forse imbufalirsi contro Woody Allen per come vengono spesso parodiati nei suoi film?

Se magari qualcuno frequentasse, oltre al Bagaglino, anche altri teatri, potrebbe farsi un’idea di come Cechov descrive i suoi connazionali russi, Brecht i tedeschi, Molière i francesi e così via, e forse capirebbe che l’essenza di ogni rappresentazione artistica –tanto teatrale quanto cinematografica, letteraria etc.– consiste esattamente in questo meccanismo di rispecchiamento o immedesimazione dello spettatore reale nella finzione scenica: sentirci chiamati in causa, sorprenderci, indignarci, difenderci, assolverci, commiserarci, ma comunque riflettere su noi stessi e sulla nostra condizione, fa parte integrante di questo “gioco” antichissimo che ogni narratore, in quanto tale, è chiamato ad innescare con le sue opere, eccelse o mediocri che siano.

Polemiche a parte, chiunque conosca la cinematografia precedente di Virzì, fin dai tempi di ‘Ferie d’agosto’, ‘Caterina va in città’ o del più recente ‘Tutta la vita davanti’, rimarrà stupito nel constatare l’assenza di quella sua tipica ironia, magari feroce o sarcastica ma pur sempre inscritta in una levità o serenità di fondo. Qui, a parte pochissime gag assestate con la precisione chirurgica di una stilettata, il regista livornese rinuncia quasi del tutto alla propria abituale bonomia. Il freddo incalza, senza che neppure lo struggente sottofondo de “l’inverno” di Vivaldi riesca a mitigarlo, e il retrogusto dell’intera vicenda è gelido come le chiazze di neve sul paesaggio brianzolo. Quasi a volerci perentoriamente ammonire che adesso, nel periodo storico che stiamo vivendo, no, non è davvero più tempo di scherzare.

 

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