Una domanda che vale la pena porsi è perché Renzi non va a Davos, dove ogni anno nella seconda metà di gennaio si radunano i potenti della terra. In fondo, è probabile che tra poco sarà lui a guidare l’Italia ed a far da ponte tra noi e l’élite del denaro. Per rispondere bisogna prenderla alla larga.

A Davos questa settimana non si parlerà dell’asset inflation, il fenomeno che fa gravitare i prezzi delle azioni in borsa e che aumenta il valore monetario dei beni immobili, e di cui tutti sono ormai coscienti. Il motivo? Porta male. La filosofia più popolare è infatti quella dell’oblio: godiamoci questa manna dal cielo, una pioggia di soldi distribuiti dal Quantitative Easing, e poco importa se sono solo carta straccia, per ora rappresentano il metro più importante della ricchezza del villaggio globale.

A Davos non si parlerà neppure del comportamento irrazionale degli investitori, che spingono le quotazioni in borsa di alcune imprese verso vette sempre più alte. Anche questo è un argomento ben noto in finanza tanto che il Financial Times ha messo in serio dubbio la logica che ha portato all’aumento esponenziale – di gran lunga superiore a quello previsto dagli analisti – del valore delle azioni di Twitter, definito semplicemente un sistema di messaggistica in tempo reale. Tutti sanno, ma pochi ne parlano apertamente, che dalle presse americane ed europee i soldi letteralmente volano verso centinaia di migliaia di fortunate imprese senza una motivazione commerciale o finanziaria valida.

Sempre il Financial Times ha criticato la decisione di Google di acquistare per la bellezza di 3,2 miliardi di dollari Nest, una start-up che ha appena compiuto 4 anni specializzata in congegni elettronici per la casa, come ad esempio il termostato controllato dal Wi-Fi. Il fondatore è Tony Fadell, ex Apple e personaggio leggendario a Silicon Valley perché ha contribuito alla creazione dell’iPod. Basta questo per investire una cifra tanto elevata? Quanto fatturato dovrà produrre Nest per giustificare un tale prezzo di vendita? Ecco le domande razionali che il Financial Times presenta al lettore.

A Davos non si parlerà neppure dell’economia italiana, ormai agonizzante nonostante i messaggi rassicuranti della stampa e dei politici nostrani. Non per scaramanzia ma per indifferenza. Neppure un dollaro del fiume di denaro che  dal 2008 scorre verso le imprese straniere come Twitter, Facebook o Nest, è arrivato a casa nostra. Unica eccezione la Moncler, il cui valore di mercato è salito del 44 per cento da quanto è stata quotata in borsa a Milano. Dal 2005 al 2012 gli italiani hanno ricevuto complessivamente da investitori stranieri appena 16 miliardi di dollari mentre i francesi ne hanno attirati 25 e gli inglesi 62. Raccogliamo le briciole.

Ormai è chiaro che per l’economia italiana attrarre i capitali esteri è un’impresa impossibile per una serie di motivi tra cui il sistema fiscale che impone alle imprese una tassazione proibitiva, l’eccesiva burocratizzazione e la lentezza del processo giudiziario e giuridico.  E questo spiega perché dal 2005 al 2010, in media gli investimenti stranieri sono stati pari all’1,4 per cento del PIL contro la media europea del 3,3 per cento.

All’estero nessuno si fida di governi che da una parte cercano di attrarre e dall’altra bloccano l’ingresso del capitale straniero, è successo con la Siemens tedesca e la Doosan coreana che volevano acquistare l’Ansaldo Energia. Stesso discorso vale per laproposta di acquisto francese dell’Alitalia.

Dal 2011 l’Italia ha sempre meno peso in Europa e nel mondo, una verità che a noi italiani non piace affatto ma che giustifica l’indifferenza dei potenti della terra nei nostri confronti. Con il Quantitative Easing all’europea Draghi ha sicuramente salvato l’euro, ma non ha salvato il suo paese natale, al contrario ne ha accelerato il processo di decadenza costringendoci ad accettare una politica di austerità demenziale.
Secondo l’OCSE dal 2008 il costo del lavoro in Italia ha continuato a salire a causa delle tasse. Dal 2000 questo è aumentato del 36,2 per cento contro 11,4 per cento della Germania ed il 25,2 per cento della Spagna. Perché la pressione fiscale è tanto alta? Perché il debito pubblico è fuori controllo e l’austerità invece di diminuirlo lo ha fatto crescere redendo più dura la recessione, ormai siamo al di sopra del 130 per cento, un cane, insomma, che si morde la coda.

Inutile citare altri dati come la disoccupazione giovanile, che si è più che raddoppiata dall’inizio della crisi e che ormai è ai massimi storici post-bellici (40 per cento) mentre quella nazionale è ai massimi degli ultimi trent’anni (12,7). Tanto per capire la gravità di questi valori basta menzionare che negli Stati Uniti, la disoccupazione è  intorno al 7 per cento. Inutile parlare di produttività del lavoro, la nostra è di gran lunga sotto al media europea.

A Davos nessuno crede che Matteo Renzi possa cambiare questo scenario con riforme ad hoc, molti non sanno neppure chi sia, e nessuno pensa che il miracolo economico spagnolo di cui tutti ormai parlano avverrà anche nel nostro paese. Nei confronti dell’Italia gli stranieri provano un  senso di profonda incertezza politica. Negli ultimi due anni abbiamo avuto tre primi ministri e nonostante Letta dichiari di voler rimanere fino al 2015, Matteo Renzi non fa che lanciare messaggi diametralmente opposti. Ma chi può oltralpe mettere la mano sul fuoco che la leadership di Renzi sarà diversa da quella di Letta o di Monti? Una domanda che Renzi dovrebbe porre ai delegati di Davos, se mai decidesse di andarci.       

 

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