Woody Allen girò tra quelle mura e scaffali in legno che odorano ancora di inchiostro, una delle scene memorabili di Manhattan, un omaggio in bianco e nero a New York, quella che, come recita il monologo iniziale, era la sua città e lo sarebbe sempre stata. Giusto per capire cosa vuol dire Rizzoli a Manhattan, un’ambasciata d’Italia più che un bookstore, un luogo di incontro e lettura più che una semplice libreria.

Vent’anni fa, quando non esisteva la teletrasmissione e Internet non era neanche all’alba, gli italiani diventati newyorchesi, andavano ad aspettare il Corriere della Sera e la Gazzetta dello Sport alle cinque del pomeriggio. I giornali del giorno prima, ovviamente, che la Rizzoli imbarcava sul Boeing 747 dell’Alitalia. Altri tempi, in una città che cambia fisionomia ogni giorno, stravolge lo skyline, perde le Torri Gemelle. La Rizzoli è sempre rimasta un punto sicuro. Fino a oggi: tre piani rischiano di scomparire, perché la società proprietaria ha intenzione di trasformarli in appartamenti. L’ipotesi è addirittura abbattere la palazzina sulla 57esima strada west, a un passo dalla Quinta. Gli intellettuali sono pronti a mobilitarsi, ma è la città dove gli affari passano sopra a qualsiasi pezzo di storia. Ha cambiato sede il New York Times, può farlo in maniera altrettanto indolore la Rizzoli. È stata per New York almeno quanto la signora in grigio, come viene chiamato il più autorevole quotidiano del mondo. L’unica speranza è appesa a un intervento del sindaco che è italiano e potrebbe spendere mezza parola. Anche perché a New York di italiano inteso come comunità è rimasto ben poco: Little Italy è ridotta a una mezza strada, mantenuta giusto per i turisti, visto che Chinatown se l’è divorata. Lo stesso è accaduto a Brooklyn, allora “broccolino”, dove l’italiano non si sente quasi più, ingoiato da una lingua strana, molto masticata, che i nonni hanno insegnato ai nipoti per uno strano senso di nostalgia, che però di italiano non ha una regola, solo qualche vocabolo.

Oggi la bandiera è rimasta nelle vetrine di qualche boutique: è italiano Gucci, di proprietà non italiana, è rimasto Bulgari, tiene duro la famiglia Ferragamo. Per il resto non cercate bandiere, non ce ne sono più. Qualche ristorante resiste: lo storico Bice, il San Domenico, Cipriani.

Rizzoli in quella strada strategica respirava ancora di cultura molto italica, e i proprietari dello store avevano resistito all’americanizzazione della libreria: niente caffè, come invece offre Barnes & Noble, poche riviste, molti libri. Libri che hanno portato laggiù la nostra miglior letteratura, l’architettura, il giornalismo. Non è grande, ma ha uno stile tutto suo, sofisticato. Lo volle Woody Allen per quello che è ricordato un capolavoro, ma anche Ulu Grosbard, il regista di Innamorarsi (Falling in love in lingua originale), quello che è ancora ricordato come uno dei film più romantici della storia del cinema, protagonisti Robert De Niro e, ancora una volta, come in Manhattan, Meryl Streep.

Per adesso, scrive La Stampa, dalla proprietà congiunta fra la famiglia degli immobiliaristi LeFrack e il Vornado Realty Trust, non si riesce a ottenere altro se non una serie di infastiditi “no comment” o, nella migliore delle ipotesi, un rimando all’altro 50% di proprietà per avere dei commenti. Alla sede newyorchese di Rizzoli dicono che l’azienda è ancora in attesa di informazioni più complete da parte della proprietà la quale, stando a una dichiarazione ufficiale, ha detto semplicemente che “spera di trovare una nuova collocazione per il Rizzoli Bookstore”. Un modo elegante per dire che sì, se ne va un altro pezzo di storia.

Il Fatto Quotidiano, 18 gennaio 2014

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