Saffo, Ode ad Afrodite

O immortale Afrodite, dal trono variopinto,
figlia di Zeus, tessitrice d’inganni, t’imploro
non prostrarmi l’animo, o signora,
fra dolori e angosce,
ma vieni qui, se già altre volte
udendo la mia voce da lontano
le hai prestato ascolto, e, abbandonata la casa del padre
giungesti
dopo aver aggiogato il carro: ti conducevano
veloci passeri sopra alla terra nera
sbattendo fittamente le ali, giù dal cielo
attraverso l’etere
e subito sei giunta: e tu, o beata,
sorridendo nel tuo volto immortale
mi domandasti che cosa ancora soffrivo, e perché
ancora ti chiamo
e che cosa voglio che accada per me
nel mio cuore impazzito: “Chi ancora m’indurrò
a ricondurre al tuo amore? Chi, o
Saffo, ti oltraggia?
Infatti se ora fugge, presto inseguirà,
se non vuole ricevere doni, sarà lui a farne,
se non ti ama, presto ti amerà
anche controvoglia.”
Vieni da me anche ora, liberami dalla dura
angoscia, e quelle cose che il mio cuore
vuole che per me siano compiute, compile, e tu
stessa siimi alleata.

Un rifiuto, per chi lo riceve, sembra, fin troppo spesso, ingiusto. La natura umana è tale per cui è più facile ribellarsi a chi ci dice no, che domandarsi invece il perché di quella risposta. Ogni domanda mette in discussione se stessi, mentre il bisogno è più spesso quello di proteggersi e non apparire vulnerabili. Un rifiuto non accettato può quindi mettere nell’atteggiamento della “volpe che non arriva all’uva” e finge di disprezzarla o di non averne più bisogno, oppure può indurre in atteggiamenti e comportamenti che portano l’altro in una condizione di debolezza indotta.

Nella “Ode ad Afrodite” la poetessa greca Saffo invoca l’aiuto di una dea, una forza esterna non umana, affinché il suo amore possa essere ricambiato dall’amata. Saffo invoca una costrizione e a dettare la sua preghiera è la disperazione del non raggiungimento o della perdita dell’amato (s)oggetto. Ella invoca una violenza sull’autodeterminazione di un’altra persona, la veste di poesia, le dà la forma dell’arte, ma violenza rimane.

L’unica  invocazione “corretta” sarebbe stata pregare la dea di trovare la forza di superare il dolore, ma il desiderato, nella mente del desiderante, passa da soggetto ad oggetto. Si chiede la  perdita della capacità di scelta di una persona perché venga assoggettata a bisogni non propri. Il dolore dilania e tanto basta per perdere il confine con il lecito. La sofferenza come giustificazione per nuova sofferenza in un circolo vizioso ed autodistruttivo.

Quando la cronaca riporta casi di violenza di genere e stalking si afferma che tutto questo non ha niente a che fare con l’amore, si è sempre più propensi ad utilizzare questo termine con maggiore accortezza.

Io non so cosa sia l’amore o meglio non potrei che provare a definirlo con parole mie, senza che queste debbano essere necessariamente esaustive per gli altri. Ho amato, come tutti, e riconosco una complessità tale che potrei solo perdermi in delimitazioni che non starebbero dietro a stati d’animo impetuosi ed in continuo movimento.

Io non lo so cosa sia l’amore, se non che ognuno ci potrebbe dare una sua versione diversa, sulla base di un sentire comune fuori dal comune. E’ già tanto complicato capire cosa sia, per me, amare che non riuscirei a valutare quello che prova  un altro essere umano, spetta solo a lui la “definizione” del suo sentire con le parole che trova più congeniali, non a me.

Quello che so è che c’è un limite ai comportamenti che possono essere determinati da quel che sento e sono io che posso fermarmici o oltrepassarlo ed è proprio su quel confine che si gioca la partita più dura. Amare può significare rincorrere, amare può significare lasciare andare, amare può forse anche significare non voler lasciare andare. La differenza sta però tutta nel considerare l’altro un oggetto o un soggetto e sarà questo che qualificherà anche me come persona.

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