Si può fare coming out di tutto (fortunatamente) nella nostra società. Ma di una cosa no: il malessere psichico. Depressione, esaurimento, panico non sono perdonati. Ci condannano colleghi, amici, addirittura la famiglia. Quanti di noi hanno liquidato conoscenti colpiti dal male oscuro con un’odiosa parola (che andrebbe bandita): pazzo. Quanti si sono sentiti a loro volta definire “malati”. Parole che scavano un confine e condannano alla solitudine. Milioni di italiani vivono con questi terribili compagni accanto. Si aggrappano, come a un salvagente, ad antidepressivi e ansiolitici, nel terrore di perdere lavoro e affetti. Incapaci di vivere. Di essere.

Accade magari all’improvviso: una mattina ti accorgi che un diaframma ti separa dal mondo, dalla vita. E’ una crisi di panico che ti toglie l’aria, un malessere che cerchi nel corpo, ma non trovi. Dove allora, dove? Nella testa, la sede più profonda di te. Sì, allora è vero, sei pazzo, se d’un tratto non riesci più a uscire, ad attraversare la strada. A vivere. Difficile immaginare sofferenza più acuta, ma invisibile, impossibile da esprimere perché non possediamo più le parole per farlo. Ce l’hai dentro, ma non sai dove, non capisci cosa sia. Sei tu, è la risposta che ti suggeriscono gli altri. E ti ritrovi disperatamente solo.

“Tutto fa gorgo”, diceva il poeta Adriano Guerrini. Sei “nella selva oscura” scriveva Dante. Infinite le citazioni possibili – a cominciare dal “Male Oscuro” di Giuseppe Berto – non per sfoggio, ma per accorgerci che tanti sono soli insieme con noi. E’ il primo passo per uscirne: condividere la sofferenza. Evitandolatentazionedelsensodicolpa. No, il disagio non è una colpa. E’ inutile puntare il dito contro se stessi, ma anche contro genitori o coniugi. Cause, però, ce ne sono, come dice Caterina Bonvicini: “La depressione è quel groviglio di errori (di questioni non risolte, aggiungiamo noi) che a un certo punto ti crolla addosso intero”.

E’ un male oscuro che richiede di essere chiarito. Non c’è altra via di uscita: uno sforzo sovrumano per ricomporre la propria esistenza. Si può trovare un primo sollievo nei farmaci, nell’attività fisica che ci rimette in sintonia con il corpo, il nostro legame con il mondo. Ma occorre affrontare quei nodi, per ritrovare in se stessi un compagno, non un nemico. Solo chi ci è passato sa quanto sia doloroso. Ma il male può diventare un’occasione irripetibile. Se ne esce da soli, ma con il conforto degli altri. E qui sì che ci sono colpe, della nostra società che ignora questo male per timore di esserne contaminata o di dover riconoscere le proprie mancanze. Dello Stato che non fornisce cure adeguate e accessibili a tutti. Ma se ne esce, magari all’improvviso come vi si era sprofondati. Racconta Hubert Selby Jrnel in “Canto della neve silenziosa”: un giorno esci di casa, cammini nel bosco coperto di neve. E sei di nuovo vivo.

Il Fatto Quotidiano del Lunedì, 13 gennaio 2014

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