Luciano Bruno non lo conosco, non conosco le sue inchieste, se ne ha fatte. Ho visto, perché l’ha segnalata Claudio Fava, una sua interessante performance teatrale. So quello che è stato riferito, ovvero che è stato oggetto di un’aggressione vera e propria mentre stava scattando alcune foto nel cosiddetto “Palazzo di cemento” a Librino. Un’azione intollerabile, vigliacca (sei contro uno, pare…), ma attenzione non eccezionale. La sua usualità non toglie certo gravità alla cosa.

Facendo questo mestiere episodi del genere sono frequenti. Ognuno di noi ne può raccontare dozzine. Personalmente nell’ultimo mese, senza farne un caso, sono stato al centro di aggressioni fisiche e verbali in tre occasioni e in contesti assolutamente diversi tra loro. Dico questo non perché voglio sminuire il lavoro di questo giovane collega, ma perché vorrei che le cose fossero ricondotte alla giusta dimensione. Non servono eroi ad ogni costo, non lo dico a Bruno il quale, per quanto mi risulta, ha mantenuto un profilo di assoluto equilibrio, ma a coloro che a tutti i costi devono trasformarlo – probabilmente suo malgrado – in un eroe. Costruire “eroi” serve in modo autoreferenziale a chi li edifica e ne fa uso strumentale. Sarebbe invece opportuno spiegare che questo giovane non è un eroe perché stava semplicemente facendo quello un giornalista deve fare.

Ovvero documentare una realtà assumendosi la sua porzione di rischio. Ce ne sono tanti in giro per l’Italia che lo fanno, senza che nessuno parli di loro, salvo poi a scoprirli quando per l’isolamento nel quale hanno lavorato sono costretti a andar via per non farsi ammazzare. Gli si da un premio, ma la frittata è fatta. In Calabria Annalisa Costanzo ha fatto scoppiare il caso dei morti di tumore per i rifiuti sepolti abusivamente dalla criminalità ad Africo. Le hanno consigliato “caldamente” di lasciar perdere. Lei non l’ha fatto. Nessuno le ha mandato comunicati di solidarietà. Ha scritto, documentando tutto, e sono arrivati i carabinieri. Forse neppure le hanno detto: “brava”.

A questi giovani colleghi non serve la solidarietà pelosa e autoreferenziale, servono aiuti, strumenti sui quali scrivere, serve che siano conosciuti e che possano a fare questo lavoro non per diletto, ma per professione con un compenso dignitoso. Un lavoro nel quale sempre di più se non sei figlio di qualcuno, se non appartieni ad un partito, se non lecchi il culo alla chiesa di turno, se non sei conformista controllabile, non vai avanti. Dare a questi ragazzi una possibilità, questa sarebbe la vera solidarietà.

Ma torniamo a Catania. Non so se Luciano si sia mosso con prudenza o se abbia commesso errori nell’approccio (sapersi muovere in certi contesti fa parte di una professionalità che non si improvvisa ma si acquisisce col tempo e con l’esperienza). Sta di fatto che lui ci è andato a raccontare quella realtà. Anche altri colleghi dovrebbero farlo, ma soprattutto, se posso dirlo, dovrebbero andare a raccontare non solo quella realtà. Raccontare il “palazzo di cemento” si, può essere utile, ma quello che manca a Catania, nella Catania narrata dai silenzi della stampa al soldo dell’indagato di mafia Mario Ciancio, mi sia consentito non è un’inchiesta sui pusher di Librino, ma un lavoro sistematico su chi continua a divorare da decenni la città. Un sodalizio criminale, dove in un continuo mascariamento si confondono i ruoli e i nomi. Una città dove persino una certa antimafia è ormai divenuta parte integrante di un sistema di potere nel quale la mafia ha sì un ruolo, ma forse non quello di regista. Una Catania dove ad esempio, nel cupo silenzio dell’informazione, si preparano persino a cementificare il porto con una colata di un milione e mezzo di metri cubi di cemento, quattro volte quanto previsto dal piano regolatore per l’intera città.

A Catania è urgente raccontare – sempre per fare un esempio – i nuovi padroni della città, invece di continuare a parlare dei fantasmi dei cavalieri, ormai morti e sepolti. Un lavoro che impone a chi lo fa professionalità, rigore, coraggio. Ecco cosa bisognerebbe insegnare i giovani colleghi chiamati a prendere il posto della mia generazione. Non basta raccontargli di quanto eravamo bravi, bisogna dar loro strumenti, spiegargli come si fa un’inchiesta, quali sono le regole, come si valutano le carte, i documenti, come rapportarsi con le fonti. Insegniamogli queste cose se vogliamo essere solidali veramente. Insegniamo ad avere una propria identità, trasmettiamo la memoria, ma senza imporre miti e modelli insegniamogli a non essere conformisti a non ripetere a pappagallo le storie di ieri e le letture, spesso sbagliate di oggi. Insegniamogli ad avere dubbi, ad esser irriverenti, a non essere conformisti ma ad essere dei rompiscatole. Insegniamogli la fatica di fare questo mestiere e impegniamoci per far si che abbiano gli spazi che sono necessari e non giornaletti autoreferenziali che non legge nessuno.

A Catania da sempre la violenza contro i giornalisti si consuma in varie forme, tra esse certo ci sono i pugni contro Bruno, ma ci sono soprattutto i silenzi. A qualcuno, trent’anni fa hanno tolto la vita, ad altri sei, otto anni fa, hanno levato il lavoro e la possibilità di raccontare la città perché non si uniformavano al coro di Ciancio. Cacciati nell’assordante silenzio di una città intera. Solo poche le voci che si alzarono, tra queste quella di Giovanni Burtone, Claudio Fava e di Beppe Giulietti. Fabio Albanese era uno di quei giornalisti. Uno bravo. La scorsa settimana, come prima di lui Giuseppe La Venia, Alfio Sciacca e il sottoscritto, ha dovuto lasciare Catania. Tre mesi di contratto a La Stampa a Torino… poi si vedrà. Forse una parola di solidarietà l’avrebbe meritata. Ma va bene così.

Infine Librino. Una realtà che ha varie facce e chi l’ha raccontata usando l’accetta evidentemente ne serba un ricordo lontano. Oggi quel quartiere mostra segni importanti di reazione. Le scuole e gli insegnanti che da anni con mille difficoltà ci lavorano hanno creato delle realtà diverse. Un artista dotato di sana pazzia e armato di assoluta generosità come Antonio Presti ha fatto di Librino il centro di un’esperienza artistica straordinaria che nasce dal basso e coinvolge i ragazzi del quartiere. A Librino convivono migliaia di persone per bene, costrette a vivere insieme a pochi branchi di manigoldi. Nonostante molte cose siano cambiate vi sono ancora assenze gravi. Parlarne però come di un inferno senza speranza non serve ad aiutare chi fa Resistenza, tra i quali ci metto anche il giovane Luciano Bruno. Credo che bisognerebbe andarci e trovare il tempo per ascoltare questi cittadini. Ma questo forse non è il compito dei giornalisti. 

 

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