Ha appena appoggiato il sudato Golden Globe, Paolo Sorrentino, e in Italia, in perfetto clima da parenti-serpenti, si scatena già il dibattito se La grande bellezza meriti o meno l’Oscar per il Miglior film straniero che con buone probabilità lo attende a Los Angeles il 2 marzo.

Con puro spirito tafazziano, il critico, il docente universitario, il blogger, l’avventore del bar Facebook e chi più ne ha più ne metta, si chiede – con insospettabile e normalmente ben calato interesse per il cinema – se il sesto film del regista napoletano valga cotanto riconoscimento. Maledizione tricolore da Academy Award, ovvero un cocktail di invidia strisciante, nanismo e frustrazione, che colpì già Giuseppe Tornatore e in buona parte anche Gabriele Salvatores, due nomi su cui è sempre – paradossalmente – pesato un successo chiamato Oscar. L’ultimo lo abbiamo guadagnato grazie a Roberto Benigni che, con La vita è bella, trionfò nel 1999. Ovvero 15 anni fa. Da allora solo un film italiano è arrivato alla candidatura (La bestia nel cuore di Cristina Comencini, 2006). Colpa, da una parte, di un Paese che di certo non produce capolavori a raffica e che non ha tantissime cartucce per imporsi. “Colpa”, anche, di una certa pigrizia dello zio Sam nel guardare i film fuori dal proprio confine.

Forse La grande bellezza non è il miglior film di Sorrentino (per chi scrive di sicuro non lo è) e probabilmente ci sono stati, in questi 15 anni, film più belli anche in Italia (la doppietta Il divo e Gomorra, per restare in famiglia). Ma per agguantare l’Oscar serve, piaccia o no, un mix che il film di Sorrentino possiede totalmente. L’ingrediente fondamentale per sfondare negli Usa pare sia mettere in scena una sorta di deja-vu, riesumare un sentore, un aroma di qualcosa che gli americani conoscono e che gli piace molto ricordare. Qualcosa che fa molto “made in Italy”. Sorrentino rievoca 50 anni dopo il fantasma di Fellini, che resta il regista italiano per antonomasia, in un inedito tour di Roma, la città eterna delle Vacanze romane e della Dolce vita, mostrandola nella sua decadente cupezza: usa il già noto per raccontare personaggi, ambienti e mostri moderni. Se ci aggiungiamo che Sorrentino gira benissimo e che la sceneggiatura funziona ed è sufficientemente comprensibile a tutte le latitudini del pianeta, e il film è servito e l’Oscar possibile.

La grande bellezza è l’unione ideale tra il localismo italiano e il linguaggio del cinema globalizzato. È un prodotto “glocal”. Un regista che riesce a mantenere un buon equilibrio tra queste due istanze e arrivare a Hollywood fa un ottimo lavoro con buona pace di chi “saprebbe far di meglio” (che il cinema è diventato come la Nazionale in cui tutti sarebbero più bravi dell’allenatore ufficiale). A noi italiani pare non andar mai bene niente: se non siamo in finale ci autocritichiamo, se vinciamo non è con il film giusto, quindi non va bene. Ma quale sarebbe il “film giusto”?

Piaccia o no, i film sono prodotti per un mercato. Idee, storie e immagini da vendere, da esportare, da mostrare ovunque. La grande bellezza forse non è il miglior titolo della piccola&media impresa italiana del settore negli ultimi lustri, ma di sicuro è quello che all’estero può dare ottimi risultati. Non a caso, tra le marche sponsorizzate ne La grande bellezza c’è l’amaretto Disaronno. Che pochissimi italiani bevono, ma che all’estero “fa” italiano. Posizionamento di un film attraverso il suo product placement: o pensiamo davvero siano due aspetti avulsi l’uno dall’altro?

Se poi qualcuno vuole, con calma e senza ideologismi, capire perché Disaronno “fa” Italia, perché Woody Allen ha fatto il suo peggior film a Roma, perché la malinconia di Nuovo cinema Paradiso, l’eden perduto Mediterraneo e il tempo ritrovato de La grande bellezza valgono premi negli Stati Uniti, allora si aprirà un dibattito non sull’Oscar o sul cinema, ma sulla proiezione internazionale del nostro paese, sull’interesse che suscita il nostro presente (poco) e su quanto la nostra immagine sia legata a quella di un dopoguerra eterno o di una promessa mai mantenuta.

Sorrentino che è bravo e sa fare molto bene il suo mestiere, ha realizzato un film italiano da esportazione. La squadra dovrebbe solo fargli gli onori.  

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