“Io ho una totale sintonia con Vendola”. Boccia le larghe intese e spera che l’election day di maggio contempli anche le politiche. Cita Landini e storce il naso davanti al job act di Renzi. Tanto che l’applausometro della platea del congresso regionale di Sel, a Ferrara, è stato tutto per lui. Nonostante al tavolo ci fosse anche il coordinatore nazionale Francesco Ferrara. Pippo Civati parla già da “federalizzato”. Non serve nemmeno fare domande sulla suggestione di una “federazione democratica”. ipotizzata nei giorni scorsi. Lui ci sta. Eccome. Anzi, in più occasioni Civati lo deve specificare: “Sono nel Pd e ci voglio restare”. Perché tutto il contorno sembra orientato ad altro.

A partire dalla larghe intese, “ormai un problema quotidiano” di un governo che “deve andare a conclusione”. Staccare la spina all’esecutivo di Letta è l’unico modo per “uscire da questo incantesimo” tenuto in vita da “poteri forti, gli unici che hanno interesse a non avere opposizione”. Perché “dietro ai politici c’è un sistema di potere che non si metterà mai in discussione”. Un esempio giusto per restare in tema di rappresentanti del governo: “Vedi il caso Cancellieri, in questo paese se hai conoscenze e se attorno a te c’è una consorteria vai avanti, altrimenti non ce la fai”. E per Civati nemmeno il nuovo corso del suo partito è convincente. Tutt’altro. Anche perché rispetto a “quel signore di Firenze che non ricordo come si chiama”, su alcuni punti focali “ho tenuto posizioni più simili a quelle di Sel che del Pd, pur volendoci rimanere”. Perché quindi non pensa a un cambio di tessera? “Noto un sentimento troppo mortificato nei miei elettori. Uno su due mi chiede di uscire dal Pd. Ma per andare dove? Con voi che poi entrate nel Pd?”. La sublimazione della federazione democratica.

Ma Civati preferisce essere definito “professionista del conflitto”, perché una linea di demarcazione è necessaria. Ecco perché lui, a differenza di Letta, “non sarei andato a Rimini al meeting di Cl, ma soprattutto non avrei mai detto ‘fecondiamoci con gli altri’. C’è qualcosa che non va”. Ed ecco perché al messaggio di cambiamento di Renzi preferisce la battuta di Landini: “C’è una domanda forte di cambiamento, ma qual è la risposta di cambiamento?”. Non certo quella del “signore di Firenze”, che Civati richiama “a una maggiore responsabilità di fronte alla scadenza elettorale delle europee, decisive per capire dove vuole andare la sinistra. Anzi, meglio il centrosinistra, se no Letta si spaventa”. E, a proposito di sinistra, ecco le sollecitazioni che fanno venire gli occhi lucidi ai vendoliani: “Tutti stanno discutendo il piano di lavoro di Renzi senza nemmeno conoscerlo. è surreale”. Come è surreale, per “uno che si ritiene di sinistra”, “l’idea che i posti di lavoro li creano solo gli imprenditori”. Ma nel job act, a detta del deputato, mancano anche “un minimo salariale orario” e “il reddito garantito”.

Nel personalissimo cahier de doléances Civati ci mette anche l’assoluta assenza dall’agenda, ormai forzatamente anglofona, del governo e del suo segretario di vocaboli quali “corruzione, evasione fiscale, conflitto di interessi”. E la differenza con “Renzen” (nomignolo coniato in vista del prossimo incontro con la Merkel, per il quale il nuovo segretario “sta facendo un corso accelerato di tedesco”) viene rimarcata anche dal fatto che lui in Germania ci andrebbe, “ma per dire che devono consentirci di spendere su innovazione, formazione e ricerca, spese che non devono essere conteggiate nel debito”. Su questi punti, innovazione e ricerca, minimo salariale e reddito garantito, e più in generale i concetti del centrosinistra che fu, Civati tende la mano a Sel, “nella speranza di ricostruire insieme quel campo, senza etichette e personalismi. Se lo facciamo insieme, io continuerò a dirlo nel Pd, voi in Sel. E forse potrà rinascere la sinistra, pardon il centrosinistra”.

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