Ormai da parecchi anni il dibattito politico italiano segue ondate emozionali che tendono a offuscare la discussione sui problemi reali del Paese. Dopo anni spesi a parlare di articolo 18 e conflitto di interessi, siamo di fronte a un nuovo leviatano: la legge elettorale. Io credo, invece, che il nostro problema principale continui a essere l’assenza atavica di dialogo e progettualità della nostra classe politica.

Nessuno si fida dei propri interlocutori e la maggior parte dei nostri parlamentari si guarda bene dal proporre le riforme progressiste che servirebbero al paese esangue (sulle riforme progressiste necessarie al Paese mi sono già espresso molte volte dalle colonne di questo blog: il ribilanciamento del sistema pensionistico, l’istituzione del reddito minimo garantito, la necessità di redistribuire reddito e opportunità). Ci si rifugia quindi nella discussione sulla legge elettorale per giustificare l’esistenza stessa di un governo senza capo né coda. Un governo senza progettualità politica, in cui  l’unico accordo programmatico tra le forze in campo è prendere tempo tirando a campare, imponendo tasse che deprimono l’economia (vedi l’aumento dell’Iva) e rendono il paese ancora più iniquo (vedi ‘presunta’ abolizione dell’Imu). Tuttavia, se solo guardassimo all’Europa ci renderemmo conto che paesi ben più consolidati del nostro, e con sistemi elettorali diversi fra loro (come ad esempio Germania e Regno Unito), hanno difficoltà simili a esprimere maggioranze chiare come in passato. Questo perché il voto popolare, e di conseguenza il sostegno a movimenti e partiti, assume lineamenti meno netti e definiti in periodo di crisi.

Nel Regno Unito esiste un maggioritario secco basato su collegi uninominali, sistema elettorale che storicamente ha garantito maggioranze certe. Dall’altro lato la Germania con il proporzionale, un sistema più portato a maggioranze composite di quello britannico in cui la stabilità si basa su protocolli di coalizione e meccanismi costituzionali come la sfiducia costruttiva. Ebbene nonostante le diverse leggi elettorali in un periodo di profonda crisi per il mondo occidentale, in entrambi i casi si sono formati dei governi di coalizione come in Italia. Tuttavia diversamente da Regno Unito e Germania, nel nostro Paese l’esecutivo è stato messo in piedi in modo confuso, senza enunciare chiaramente il perimetro di azione governativa.

È per questa ragione, che io, prima della riforma elettorale, vorrei vedere l’apertura di un dialogo vero tra tutte le forze politiche che siedono in Parlamento. Un dialogo che porti all’ordine del giorno la discussione sulla fattibilità del reddito minimo garantito, che ridiscuta la sconclusionata riforma delle politiche sul mercato del lavoro fatta dall’ex ministro Fornero (tra l’altro con il sostegno delle stesse forze politiche che hanno dato vita al governo Letta), che apra finalmente alla modifica di Camera e Senato.

Nella realtà dei fatti invece l’assenza di una maggioranza chiara diviene pretesto per evitare la discussione sul taglio di quei tanti privilegi che stanno facendo affondare il Paese. Comunque la vediate, il Paese è diviso fra tre poli con qualunque legge elettorale. Nel bene e nel male questa è la democrazia. Gli italiani con il loro voto non esprimono una chiara preferenza per uno schieramento politico, ma indicano l’esistenza di un Paese frammentato nel quale le riforme si possono fare solo sedendosi attorno ad un tavolo con tutti gli attori più importanti.

Assumendo diverse forme, la mancanza di dialogo sulle riforme ha condizionato gli ultimi vent’anni della discussione politica. Così mentre da un lato la classe politica è intenta a litigare e trovare di volta in volta nuovi capri espiatori per giustificare la propria incapacità, dall’altro l’Italia diventa sempre più povera, diseguale e ingiusta. Se fossi nei panni dell’ex rottamatore di Firenze e dei suoi compagni di partito, mi focalizzerei meno sulla legge elettorale e più sulla formulazione di politiche concrete che possano trovare una sponda plausibile all’interno del Parlamento. Magari finendola di usare acronimi inglesi come Job Act e dicendo semplicemente cosa si vuol fare. Questo presupporrebbe, tuttavia, la volontà di rottamare, per davvero, vecchie consuetudini e antiche liturgie della politica italiana.

L’eredità più amara del berlusconismo è in noi: la convinzione che serva solo un leader forte per riformare il Paese. Non è così (i leader servono, ma non sono sufficienti in assenza di progettualità politica), anche quando questa condizione si è verificata nel nostro Paese, nessuna riforma sostanziale ha preso corpo. Questo perché a un paese spaccato, sfiduciato, bloccato e frammentato si può rispondere solo con la discussione paziente, la proposta onesta e intransigente, la formulazione di un progetto politico chiaro, e non certo bevendo tutto di un fiato, il calice, ormai vuoto, del leaderismo e del narcisismo personale.

Chi non sa analizzare a mente fredda gli errori pregressi è purtroppo destinato a commetterli di nuovo.

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