Mitty-Fox
I sogni segreti di Walter Mitty (foto © 20th Century Fox)

E’ uscito in questi giorni nelle sale il film I sogni segreti di Walter Mitty, con Ben Stiller nella doppia veste di protagonista e regista.
Il film è girato con grande cura visiva, per quanto piuttosto debole sia il plot nel suo complesso.
Gioia per gli occhi quel susseguirsi di paesaggi naturali meravigliosi, attraversati dal protagonista  lanciato all’inseguimento di un… negativo perduto.

In effetti il film sfornato da Hollywood ruota tutto attorno ad un mondo fotografico: Walter Mitty (Ben Stiller) è il responsabile capo dell’archivio negativi fotografici di Life, e sta vivendo in prima persona la crisi editoriale con tutto ciò che comporta.
Il contesto è quello della chiusura di Life in versione cartacea e del suo passaggio online: giovani manager cinici e incompetenti, licenziamenti, professionalità di lungo corso dissolte in un batter di ciglia, miopia in alto e paura in basso.

Il protagonista, timido e dimesso nella sua quotidianità ma ribelle inespresso, sogna spesso ad occhi aperti avventure mirabolanti.
Fino a quando va perso proprio il negativo della foto prescelta per la copertina dell’ultimo numero di Life. A lui viene attribuita la responsabilità e il compito di ritrovarlo: c’è in gioco il posto ma soprattutto il suo amore per un lavoro che gli ha fatto conoscere i più grandi fotogiornalisti, figure che lui ammira e, in fondo, invidia.
Non gli resta che andare alla ricerca di Sean O’Connell, fotografo autore del negativo perduto (impersonato da Sean Penn), per risolvere il mistero. Così, giocoforza, le avventure finora solo sognate diventano realtà, e l’abitudinario Walter diventa un giramondo sfidando Himalaya, vulcani, piloti d’elicottero ubriachi, mari in tempesta e cose così.

Il film ha un grande ritmo, tipico delle storie “on the road”, ma ciò che a noi interessa è la centralità del tema fotografia intesa come passione, come sacro fuoco che brucia ancora più vivo in questo tempo di passaggio epocale tra carta e web, tra analogico e digitale, tra professionalità e tagli.
La distanza fra i due mondi viene mostrata, ovviamente, in maniera estremamente romantica e manichea, tutti buoni da una parte e tutti cattivi dall’altra, e altrettanto ovviamente sappiamo che non è così.
Un film raramente prescinde dagli stereotipi, ma ciò nonostante il fatto stesso che affronti questi temi è interessante e sintomatico di qualcosa. Ecco il punto: di cosa?

La natura umana comporta la ricerca del progresso ma anche la nostalgia e l’affetto per il passato. Necessario guardarsi avanti, necessario guardarsi indietro. E fin qui, la scoperta dell’acqua calda.
La novità è che questa esigenza “fa tendenza”, cosicché anche l’industria cinematografica fiuta e cavalca il trend.
E intanto si recuperano l’abbigliamento vintage, i dischi in vinile, le barche in legno, l’organo Hammond, i mobili della nonna, la cucina del territorio, e così via.
In fotografia, ancora immersi nell’inutile diatriba tra “quelli analogici” e “quelli digitali”, riprendono quota ingranditori, Polaroid, banchi ottici, fori stenopeici, ecc.

Il film intercetta questa voglia di cose talvolta imperfette ma pulsanti, portatrici di storie e valori, e si dipana tra i provini a contatto maneggiati dal protagonista nel suo ufficio-archivio, fino alle macchine fotografiche rigorosamente analogiche utilizzate dal fotografo.
Ma il problema, oggi, non dovrebbe essere quello di usare mezzi antichi per sentirsi “sani” contro un mondo tecnologico. In fondo, anche questa, può diventare in alcuni casi una forma di feticismo, speculare a quello per l’ultimo smartphone uscito sul mercato.
L’essenziale è avere “un pensiero analogico” nel mondo digitale, unendo il meglio di entrambi.
Dovrebbe essere questo, in tanti ripetitivi convegni sulle sorti della fotografia, l’”oggetto del contendere”, ed è in apparenza paradossale che sia un film a cogliere bene quest’aspetto cruciale.

Tutto si condensa quando il protagonista riesce a raggiungere il fotografo, invano inseguito per quasi tutto il film. Una scena di pochi minuti, quasi alla fine della narrazione, ma rivelatrice: Sean sembra lì da sempre, giusto per poter regalare al candido Walter una goccia di verità. Si trova in alta montagna, raggiunta tra difficoltà e pericoli, nel tentativo di fotografare un rarissimo esemplare di leopardo delle nevi.
E anche nel tentativo, si percepisce, di trovare se stesso. Il mestiere di fotografo è intriso di solitudine, di dubbi e di slanci, tutti magistralmente scolpiti nella maschera attoriale di Sean Penn/Sean O’Connell.
Proprio quando Walter Mitty, dopo mille peripezie, riesce a raggiungerlo lassù, si palesa davanti al teleobiettivo la ragione di tanta fatica e determinazione. Una ragione a quattro zampe.

E qui avviene uno scarto apparentemente incongruo e irrazionale: il fotografo, consapevolmente, rinuncia a scattare l’irripetibile sequenza di foto e preferisce vivere intensamente quel momento, stare lì, con lo stupore e l’emozione addosso, senza doversi concentrare su inquadrature e tecnicismi.
L’uomo – potremmo dire il pensiero analogico – prende il sopravvento sul freddo professionista.
Certo, si può sostenere – non senza qualche ragione – che da un professionista ci si aspetta il risultato sempre e comunque, dunque risulta assurdo l’approccio di Sean, che rinuncia al suo “istante decisivo” dopo averlo inseguito tanto caparbiamente.
Ma si può anche sostenere, viceversa, che proprio così si manifesta la sua grandezza umana, e non può esserci un grande fotografo laddove non c’è un grande uomo. Forse.

Twitter: @ilfototipo

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