Otto mesi di un secondo settennato vissuti all’insegna di un’unica, ripetitiva e costante parola d’ordine: “Mi dimetto”. Seguita da un inciso sottinteso, ma inevitabilmente conseguente: se non si fa come dico io. C’è chi sostiene che Giorgio Napolitano sia stato costretto, in un momento di crisi economica e valoriale del Paese, ad usare un’arma così poco nobile, il ricatto, per tenere in piedi un sistema che altrimenti sarebbe deflagrato sotto i colpi dell’antipolitica e dell’antieuropeismo. Eppure, se si torna indietro solo di qualche mese nella storia di questo arroventato 2013, si scopre che il Capo dello Stato stava lavorando a questo “schema di gioco”, basato sulla presunta irrinunciabilità della sua persona sulla poltrona istituzionale più alta, da ben prima che ci si arrendesse all’inevitabilità di un suo secondo mandato. Un secondo mandato che lui aveva detto in lungo e in largo di voler rifiutare e che non sarebbe stato possibile. Anzi: “Sarebbe – disse nell’intervista a Mario Calabresi del 14 aprile – una non soluzione”. Di più: “Ai limiti del ridicolo”. 

I suoi detrattori, è noto, lo hanno accusato fin da subito di essersi inventato il governo tecnico di Mario Monti nel nome di una stabilità che – forse – solo nuove elezioni avrebbero effettivamente potuto dare. Non era però noto allora (siamo nel novembre 2011) quanto quella delle larghe intese e dell’obbedienza ai voleri dell’Europa (e degli americani, non necessariamente nell’ordine) fosse una vera e propria ossessione di Napolitano, arrivata poi nel tempo a livelli tali da non concepire il seppur minimo scossone politico, pena l’immediata minaccia: “Mi dimetto”.

E il risultato è che la sua rielezione ha finito per garantire lo status quo. Tenere la maggioranza “sotto scacco” (“O così o me ne vado”) serve sempre evitare le elezioni e causa e effetto sono che Napolitano vede come fumo negli occhi sia Grillo che Renzi. Con il primo il duello è continuo. L’esempio plastico – fotografia degli ultimi 8 mesi – sono i due discorsi alla Nazione in contemporanea nell’ultimo giorno dell’anno. Con il sindaco di Firenze apparentemente c’è più lealtà. Si sono incontrati privatamente al Colle, ma la freddezza permane. E tutti hanno letto la fuga di Renzi dal Quirinale – prima del buffet per gli auguri di Natale e senza salutare il presidente – come un modo del segretario Pd per non essere troppo “vincolato” dal Colle.

Ad ogni modo il 16 dicembre questo “schema di gioco” del capo dello Stato che prima era emerso solo nei retroscena e nelle analisi politiche dei notisti delle maggiori testate, è diventato palese in una frase di un suo discorso legata alla prima “crisi pilotata” del governo Letta: “E’ persino banale ribadire che la stabilità non è un valore se non si traduce in un’azione di governo adeguata: non c’è nulla che assomigli a una concessione all’inerzia e all’inefficienza nella preoccupazione di evitare un cieco precipitare verso nuove elezioni”.

La cecità della politica contrapposta, dunque, al suo polso fermo e alla sua lungimiranza. E, in effetti, c’ha visto lungo il Capo dello Stato quando ancora in sella, ma in pieno semestre bianco, il 30 marzo 2013 mandò un segnale chiaro a chi (Bersani) stava tentando di formare un esecutivo dopo un risultato elettorale tutt’altro che risolutivo. Se non vi mettete d’accordo per fare un governo – questa la sintesi di un messaggio ai partiti – potrei dimettermi prima costringendovi a mettervi d’accordo sul nome di un nuovo Capo dello Stato. Bella minaccia in un momento di massima confusione. I 101 del Pd dimostrarono poi quanto questa “profezia” fosse azzeccata, lasciando però sul campo anche molti dubbi sulla “firma” di quei “traditori” e, soprattutto, sul loro “alto” mandante.

Insomma, il 2013, in questi primi – quasi – otto anni di “regno”, è stato certamente tra gli anni più difficili per Napolitano, se non il più difficile della sua lunga vita politica. Un anno di tensioni e aspri confronti su cui lui, a ben guardare, ha sempre avuto la meglio e questo lo porta ad essere comunque un presidente dei record: il primo Capo dello Stato ad essere stato dirigente del partito comunista; il primo a venire rieletto; il più anziano nella storia della Repubblica; il secondo ad essere eletto quando era senatore a vita (il primo fu Leone); il primo a nominare in un solo colpo, il 30 agosto scorso, quattro senatori a vita: Claudio Abbado, Elena Cattaneo, Renzo Piano e Carlo Rubbia. Una risposta politica, lo si è letto in quei giorni, a chi nel Pdl lo stava strattonando per concedere la grazia ad un Silvio Berlusconi appena condannato in via definitiva nel processo Mediaset. Un clima incendiario, alimentato ad arte nell’ex Pdl come da consuetudine quando c’è di mezzo il “capo”, che è stato vissuto con grande irritazione al Quirinale. Il 3 agosto, attraverso canali non istituzionali, Napolitano fece pervenire un messaggio chiaro, sul fatto che la grazia, per una serie di ragioni giuridiche, ma non solo, doveva considerarsi impercorribile. Nucleo del messaggio, tuttavia, ancora più drastico nelle sue conseguenze: “Basta con le minacce o mi dimetto”. “Fermatevi prima che sia troppo tardi – riportavano tra virgolette alcuni quotidiani ben informati sul sentire del Colle – le mie dimissioni sono già scritte, e poi farete i conti con un mio successore sicuramente meno garantista di me e, per quel che ne capisco, anche con una nuova maggioranza che a quel punto finirà per asfaltare anche un centrodestra allo sbando con ritorsioni e risentimenti interni irrisolvibili”.

Ancora la parola “dimissioni” agitata come spettro della peggior disgrazia, di una crisi economica che senza di lui sarebbe stata peggiore, di un disfacimento delle istituzioni che – ancora – in sua assenza avrebbero conosciuto il punto più buio dalla nascita stessa della Repubblica. Toni, a guardar bene, iperbolici e per nulla concreti se si tiene anche in conto che Napolitano li ha usati in più occasioni ben prima della sua rielezione. Di quando, per ricordarlo, quasi tutte le principali forze politiche si recarono in processione al Colle per “pregarlo” di rimanervi per un secondo mandato. Chissà se la storia, presto o tardi, ci regalerà un giorno una sceneggiatura diversa di quel momento. Sta di fatto che Napolitano ha messo le mani avanti anche nei confronti della stessa Storia, lasciando traccia – in un’intervista alla Rai, il giorno dopo la rielezione del 20 aprile con 738 voti su 1007 – del racconto di “essere stato quasi costretto ad accettare la candidatura a una nuova elezione, essendo profondamente convinto di dover lasciare” e di aver “detto sì per senso delle istituzioni”.  Quattro giorni dopo ha dato l’incarico a Enrico Letta di formare il governo delle “larghe intese”. Chissà che questo sviluppo della crisi non fosse stato già concordato in tempi non sospetti.

Carico del nuovo mandato e giurando davanti alle Camere riunite, Napolitano non ha avuto pietà per nessuno. Non per i partiti, che di fronte alla richiesta di riforme e di rinnovamento non sono stati capaci “di dare soluzioni soddisfacenti”: hanno finito per prevalere “contrapposizioni, lentezze, esitazioni, calcoli di convenienza, tatticismi e strumentalismi”. E ai parlamentari che lo applaudivano, ha sferrato poi il colpo più duro, ricordandogli di non lasciarsi andare ad “alcuna autoindulgenza”: “Non lo dico solo ai corresponsabili del diffondersi della corruzione nelle diverse sfere della politica e dell’amministrazione, ma anche ai responsabili dei tanti nulla di fatto nel campo delle riforme”.

Ma anche lì, ecco di nuovo risuonare la parola chiave: di fronte a “sordità come quelle contro cui ho cozzato nel passato, non esiterò a trarne le conseguenze dinanzi al Paese”. Una minaccia di dimissioni che, come si è visto, è stata più volte confermata anche dopo, il 17 settembre scorso, quando il Pdl in Aventino nel nome della pressione sul Colle per far ottenere la grazia al Cavaliere, si è spinto fino alla minaccia di dimissioni in blocco pur di arrivare allo strappo nel governo e provocare le dimissioni anticipatissime di Letta e di Alfano, all’epoca ad un passo dalla porta di via dell’Umiltà. Ecco, anche allora, a spingere l’attuale leader di Ncd a compiere un passo che altrimenti avrebbe atteso ancora a fare, è stato certo il convincimento che i talebani berlusconiani avessero superato il limite, ma la responsabilità di provocare, con un atteggiamento attendista, le dimissioni di Napolitano pur di non portare il Paese nuovamente al voto. Disse, all’epoca, Re Giorgio: “Ciò configurerebbe infatti l’intento, o produrrebbe l’effetto, di colpire alla radice la funzionalità delle Camere. Non meno inquietante sarebbe il proposito di compiere tale gesto (le dimissioni in massa dei parlamentari pidiellini) al fine di esercitare un’estrema pressione sul Capo dello Stato per il più ravvicinato scioglimento delle Camere”. Proposta inaccettabile, dunque, per il Colle, quella di raccogliere il guanto della sfida da parte di Berlusconi e dei suoi. 

Così Napolitano, ormai 88enne, di fronte alla spaccatura del Pdl, si è rimesso all’opera. Siamo all’inizio di ottobre e, senza una crisi formale, il governo Letta si è rafforzato con una raffica di fiducie parlamentari (e più di una gaffe) ma va avanti. Scelta che a Napolitano ha provocato l’accusa, da parte di Berlusconi e Grillo, di aver partecipato a un “colpo di Stato”. Di qui la richiesta di impeachment. Provocazione ufficialmente non raccolta, ma vissuta, secondo i più attenti quirinalisti, con profonda amarezza, nonostante quella frase di risposta sempre pronta a scattare: attenzione, che sennò mi dimetto. Chissà quanto durerà ancora questo “sennò”.

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