Ognuno ha le proprie ottime ragioni. Tutti ne hanno una enorme da far valere. Da esporre come un trofeo: i voti di ciascuno dei partiti che compongono la squadra di governo sono tutti fondamentali. Perfino quelli dell’Udc: “La nostra rappresentanza rispetto ai numeri va bene – diceva oggi a Repubblica il ministro per la Pubblica Amministrazione Gianpiero D’Alia – Abbiamo 12 senatori e siamo in crescita: siamo determinanti”. Così la fame fa uscire il lupo dal bosco: Matteo Renzi e i suoi vogliono che il governo faccia e non duri e per un cambio di passo potrebbe servire anche un cambio di ministri anche se sia Davide Faraone (il primo a premere sull’acceleratore) sia il segretario democratico apparentemente non vogliono neanche sentire quella parola. Gli effetti sono meno banali di quanto si pensa. Sabato si doveva iniziare finalmente a discutere del testo per l’abolizione sul finanziamento ai partiti, ma al Senato è mancato il numero legale. E a gennaio in agenda ci sono la conversione del decreto Imu-Bankitalia, i provvedimenti sulla casa, il Milleproroghe. Il quale non ha affatto la strada spianata. Scelta Civica mette in forse il proprio voto: “Se fosse un reitero – dice Linda Lanzillotta alla Stampa – sarebbe fuori dalla Costituzione”. Più a fondo va il capogruppo alla Camera Andrea Romano: “A Letta – manda a dire sempre attraverso il quotidiano torinese – l’abbiamo detto apertamente. Nell’ultimo periodo ci sta deludendo”.

Dunque la colpa morì fanciulla. Nessuno vuole lo nomina, ma il rimpasto da Prima Repubblica aleggia. Eppure, dicono i giornali, sono loro – i renziani – a fare uscire i nomi di coloro che potrebbero uscire dalla squadra di governo. L’accusa è aver fatto troppo poco finora. O aver provocato più problemi che opportunità. Ma in certi casi sembrano un po’ piccole rappresaglie. Tra questi si riconoscono per esempio i nomi del ministro del Lavoro Enrico Giovannini e del collega della Cultura Massimo Bray. Il primo “colpevole” di aver espresso più di qualche dubbio sul job act proposto da Renzi. Il secondo con la “macchia” di essere vicino alle posizioni di Massimo D’Alema e di aver avuto qualche scontro con il sindaco di Firenze (per esempio sul Ponte Vecchio dato in affitto alla Ferrari, ma anche sulla questione Maggio Fiorentino e fondazioni liriche). E ancora un bersaniano: il ministro per lo Sviluppo Economico Flavio Zanonato, che dopo un inizio claudicante nel climax della campagna elettorale per il congresso del Pd arrivò a paragonare Renzi a Beppe Grillo. Ma chi rischia di più, per paradosso, sono i tecnici. Di Giovannini si è detto, ma è inevitabile che dopo il caso Ligresti e dopo che è fallita la linea Renzi sulla sfiducia (respinta prima del trionfo delle primarie) nel mirino sia finita di nuovo anche la Guardasigilli Annamaria Cancellieri. Infine il nemico numero uno di Renato Brunetta improvvisamente diventa un problema: Fabrizio Saccomanni, ministro dell’Economia che come la Cancellieri è frutto dei suggerimenti del Quirinale, è visto come “impalpabile”, non decisivo. 

Se gli uomini di Renzi in definitiva vogliono un riequilibrio anche per rafforzare il Pd che – a parere suo – non ha ministeri di peso nel suo catalogo, è quasi incredibile che da questo gioco della torre in formato maxi resti fuori completamente il Nuovo Centrodestra che, certo, per garantire la stabilità di governo ha addirittura abbandonato il padre fondatore a cui tutti loro sono devoti, ma dall’altra parte continua ad avere 5 ministeri tra cui Interni, Infrastrutture e Trasporti e Riforme istituzionali. E dall’altra parte a bussare sempre più forte è Scelta Civica. Il partito di Mario Monti si ritrova sottorappresentato dopo che Mario Mauro lo ha abbandonato per fondare i Popolari (costoletta dell’Udc). Non è solo un fatto di bandierine, per gli uomini del Professore: bensì il non poter più dire la propria in consiglio dei ministri, visto che Enzo Moavero Milanesi (ministro per gli Affari europei) è sì in quota Scelta Civica, ma non è uomo di partito (e men che meno iscritto).. In questo senso i nomi che girano per un ruolo più in vista sono quelli di Benedetto Della Vedova e dell’economista Irene Tinagli, che – a differenza di Mauro – sono quelli che si definiscono “fedelissimi”. Completa il quadro il Psi di Riccardo Nencini: i socialisti – eletti nelle liste del Pd – si sono sempre molto spesi a favore della stabilità del governo e non hanno alcuna voce in capitolo dentro la formazione di Palazzo Chigi.

Difficile, per concludere, avere un nuovo segretario del partito di gran lunga maggioritario tra le forze che sostengono il governo che non ha uomini in posti chiave dentro l’esecutivo. C’è Graziano Delrio agli Affari regionali e che potrebbe essere candidato a un ministero più “pesante”, anche se – racconta Renzi – il problema è tenercelo al governo perché l’ex sindaco di Reggio Emilia apparentemente non ne può più. C’è poi Dario Franceschini (Rapporti con il Parlamento) che però, pur avendo appoggiato il sindaco di Firenze al congresso, non si può definire un “suo uomo”. Le prime risposte potrebbero arrivare dal “patto alla tedesca” per il 2014, quando si passerà “dalle chiacchiere alle cose scritte”, come dice Renzi. Il ministro Gaetano Quagliariello gli dà ragione: “Incontriamoci il prima possibile”. Ma al momento non c’è neanche una data.

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