Sono le 8,00, sto portando mio figlio a scuola. Lo saluto, un bacio, ci vediamo dopo. Squilla il cellulare. “Sono qui davanti, ci sono già i bambini che aspettano… con ‘sto freddo… a tra poco”. Siamo sotto lo zero, davanti al carcere di Parma i figli dei detenuti attendono di vivere la normalità di una famiglia. Accompagno l’altro mio figlio alla materna. Ancora un bacio, ci vediamo dopo. Arrivo in carcere alle 10,00. Ho paura, non sono mai entrato in un carcere, non so cos’è.

Mi attende Layla Cervi, presidente di Crescere Con Noi, che nel 2005 realizza il progetto “uno spazio d’azzurro in via Burla”, portato avanti negli anni e tuttora in corso: sono momenti senza sbarre all’interno del carcere, dove i detenuti possono giocare con i figli. Progetto pioniere, primo realizzato in Italia, che solo il coraggio di una donna, e madre, è capace di realizzare. Come Layla. Tutto nasce quando, una decina d’anni fa, un bambino è triste nonostante abbia ricevuto tutti i regali tranne uno: stare con papà nel giorno di Natale, impedito anche quell’anno dalla detenzione. Fondamentale la collaborazione del Reggente degli Istituti Penitenziari Dott.ssa Anna Albano.

Varco l’ingresso, a fianco la sala d’attesa dei famigliari, borse di vita domestica a pezzi, un maglione, un paio di mutande, tutto al setaccio dei controlli. Cammino, passi scanditi da cancelli e porte, clangore di serrature, il mondo sempre più altrove. Ovunque la cortesia dei secondini, chissà che mi aspettavo. Arrivo in palestra, è allestita con addobbi, disegni dei bambini, festoni, tavoli apparecchiati, tavolone imbandito. I finestroni sono schermati da carta colorata, non si vede il cielo ma le sbarre sfumano. Alle pareti vecchi convettori sparano un caldo che non scaccia il freddo, ma in compenso hai nelle orecchie un sottofondo di centrifuga. Sono le 10,30, i miei Jacopo e Nicolò staranno facendo ricreazione.

Cominciano ad arrivare i primi famigliari, molti bambini dai 3 anni in su. Ogni nucleo prende posto a un tavolo. Poi arrivano, poco alla volta, i padri, mariti, uomini. Storie. Si abbracciano, ignorano le divise, noi.

Ho con me taccuino e matita, tutto ciò che mi è stato consentito. Faccio bozzetti, una guardia chiede cosa sto facendo, sono solo disegni. Il primo bambino si avvicina, ci mettiamo sul pavimento, freddissimo. E’ un attimo, sono circondato da bambini. Uno mi abbraccia, siamo amici. Poi rinuncio a disegnare, col timore di sottrarre i figli al prezioso tempo dei padri. Ma i bambini continuano a giocare, come in un cortile di palazzo, corrono, assediano Babbo Natale che distribuisce giochi, si mescolano ai clown V.I.P. anch’essi qui come volontari del sorriso.

Cosa staranno facendo i miei figli? Tengo lo sguardo basso, sono un ladro che arraffa con gli occhi, uno spione d’intimità fra i tavoli, coppie che si tengono le mani, giovani padri che abbracciano per affondare e respirare l’odore dei figli neonati. Ogni volta che vedo queste mani strette mi viene il magone, ma ho imparato a controllarmi, che presunzione sarebbe lasciarmi alla commozione quando sono l’ultimo qui dentro ad averne diritto.

Arrivano le autorità, satelliti, solo i bambini sanno infrangere tutto, parlo delle barriere degli adulti. Mi portano nella stanza dove i bambini in visita settimanale possono giocare, mentre mamma e papà sono al colloquio: un universo di disegni, guidato dai volontari di “Per ricominciare”, presenti tutto l’anno, e due educatori giovanissimi e in gamba come Samantha Antonino.

Nella palestra rintocca l’ora, la guardia fa i primi cenni, segnale convenuto che il tempo sta per scadere. Una bambina di sei anni si avvicina, non ha smesso un attimo di sorridere, abbraccia tutti i palloncini e giochi che ha ricevuto e mi dice “Questo posto è bellissimo, voglio tornarci anche l’anno prossimo!” Provaci a dirle che no, ovunque ma non qui. I famigliari escono, come dita annodate alle dita si sciolgono le ultime strette, slacciano gli ultimi abbracci. I detenuti si avvicinano all’uscita, in attesa del loro momento e per guardare la famiglia gli ultimi venti metri prima che giri in fondo al corridoio. Inizia una specie di minuto durante il quale nessuno parla, cerco gli occhi di questi ragazzi. Non ho mai pensato cos’hanno commesso. Non ci sono riuscito. E in questa specie di minuto accade solo la lenta attesa di altre attese. Il secondino fa un cenno, rompiamo le righe, i detenuti ci salutano, posso guardarli, sorridere, dare loro la mano, vulnerabile come chi non ha più paura. Tutti ci dicono grazie. Penso ai loro figli, a questi padri dei quali ignoro le colpe e ai loro figli che sono innocenti e scontano i padri. Non posso giudicare gli adulti, ma i figli sì: hanno sorriso e giocato a lungo, oggi, in un giorno di galera speciale.

In pochi minuti la sala torna palestra, si sparecchiano gli addobbi, esco. Se mi sbrigo faccio in tempo a prendere mio figlio che esce da scuola. Se riesco… gli racconto di un’evasione di massa dalla diversità: quella di bambini che sono riusciti a scappare dentro per passare il Natale con il proprio Babbo. 

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