Avete presente quelle signore rifatte e griffate dalla testa ai piedi, che saranno state anche belle, ma si sono rovinate con le loro mani? Singapore fa pensare a loro; con la sua skyline affacciata sulla baia (che però non si vede) e la sua marina senza approdi che non siano quelli degli alberghi a sette stelle: il leggendario avamposto della Compagnia inglese delle Indie Orientali è ormai un luccicante mazzo di grattacieli e centri commerciali dove sventolano i marchi e le insegne della finanza mondiale.
Lusso scambiato per eleganza in una città che ha completamente cancellato la sua storia, e di conseguenza ha venduto l’anima non a Mefistofele, ma agli hedge found, che pagano meglio. Qui risiede una delle più alte concentrazioni al mondo di milionari, e si vede, ma anche un’enorme quantità di immigrati, soprattutto indiani e bangladeshi, costretti ai lavori più umili e a vivere in questa gabbia di cristallo sotto la soglia di povertà. Qui non si vede un mendicante, qui nessuno vive ai margini delle strade, qui nessun baracchino fumiga di cibi indecifrabili, però…

Però meno di tre settimane fa nel distretto di Little India sono improvvisamente scoppiati dei disordini. Auto date alle fiamme e scontri violenti con la polizia che ricordano da vicino le rivolte di tante altre periferie metropolitane (foto 1); un’esplosione di rabbia che non si vedeva da 40 anni e ha messo sotto chock questa città-stato dove la sicurezza è un’ossessione.

Dopo essere stati in Thailandia, Malesia e Indonesia, l’arrivo a Singapore ha qualcosa di surreale. Nessuno più ti sorride (anche perché nessuno sorride), nessuno più ti rivolge la parola (anche perché nessuno parla). All’improvviso non sei pù Richard Gere, non sei più nemmeno una comparsa del film con Richard Gere. Sei ridiventato invisibile, o addirittura sospetto -questa è una città dove i taxisti ti squadrano e se non gli vai a genio tirano a dritto. Solo se fai qualcosa di sbagliato, come oltrepassare di un centimetro la linea gialla nei percorsi a cui devono attenersi anche i pedoni oppure accenderti una sigaretta fuori dagli spazi prestabiliti, allora sì che ti vedono. Controllo passaporti e multe sono sempre dietro l’angolo. Sei in Svizzera, ma non in Svizzera. E poi sei in Asia, ma non in Asia.

Ma allora perché siamo finiti qui, in questa Montecarlo d’Oriente tirata a lucido e così poco contromano?

Perché a questo punto, dopo tanti sakè economici, birre cinesi e succhi di frutta, ci voleva un brindisi più serio, e Singapore, in teoria, avrebbe le carte in regola. Pur circondata dai grattacieli, qui sopravvive la mole coloniale del Raffles, il leggendario Grand Hotel definito da Sommrset Maugham “il crocevia di tute le storie del sud-est asiatico”, che da un secolo e mezzo non ha smesso di esercitare il suo fascino su scrittori e romanzieri (foto 2). 

Eccoci dunque a percorrere i candidi corridoi, le ali, i padiglioni e i chiostri fioriti del Raffles Hotel, che però non se la passa troppo bene. Il museo con i cimeli degli ospiti illustri ha chiuso i battenti per fare posto a una delle tante boutique che stanno trasformando la sua corte in una Rinascente. Al centro estetico appena aperto c’è la coda, mentre il writers bar è deserto, e appoggiato alla parete Joseph Conrad, altro illustre habitué, appare comprensibilmente perplesso (3).

Inaccessibile la sala del biliardo, dove la leggenda vuole che all’improvviso da sotto il tavolo sbucasse una tigre; al che un vecchio ospite inglese, senza fare una piega, commentò sconsolato: “Ormai fanno entrare veramente tutti”. Ancora attivo e animato di turisti è invece il Long Bar, dove nel 1915 venne creato il celebre cocktail Singapore sling. Non proprio economico, 31 dollari di Singapore ovvero più di 20 euro, ma, come si diceva, a questo punto un brindisi ci vuole (foto 4).

Perché il 2014 è alle porte e soprattutto perché, cari lettori (se ancora ne sopravvive qualcuno), questa è l’ultima puntata del nostro blog. Almeno per un bel pezzo.

Dopo 125 giorni, 16 settimane abbondanti e 20 paesi, i due compagni di viaggio si dividono. Era già successo, in realtà, ma solo per brevi periodi; questa volta invece, sulla soglia del nuovo anno, la separazione è definitiva.
Pietro se ne va nell’amata India, il cui visto è costato lunghe code nell’ambasciata di Bangkok; Nanni passa direttamente in Africa. Ci ritroveremo? Ma sì, anche perché dobbiamo capire che fine ha fatto la vera eroina del nostro viaggio, la Rabmobile.

Le ultime notizie ricevute dal Portogallo sono confortanti; Pedro dice che il cargo proveniente dall’Oceano indiano è atteso a Setubal a giorni, e di non preoccuparsi, ci penserà lui a ritirare l’auto e a riportarla a Comporta, al suo ristorante, dove l’avevamo posteggiata quasi quattro mesi fa (foto 5).
Sarà vero? Lo sapremo solo quando anche noi torneremo in quel minuscolo paesino che avevamo trovato per caso. E allora l’appuntamento finale è fissato lì; per noi, e anche per questo blog.

(30-continua?)

 
 
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