“Questa è la pelle. Ma si vede ancora l’animale. Se volesse vedere l’animale, eccolo qui: la testa, il posteriore, le zampe anteriori, le zampe posteriori”. La spiegazione è dello Svedese, protagonista della Pastorale americana di Philip Roth. Eppure, più o meno, è quello che racconta Toni, decano della fabbrica di Diego Della Valle nelle Marche, dentro il caveau delle pelli pregiate. Qui si fanno le Tod’s da donna, tra mille ulivi, l’asilo per i figli dei dipendenti, la mediateca dove si possono prendere in prestito libri, giornali e dvd. Un grande quadro con l’ombra di un uomo sovrasta la sala riunioni di Diego Della Valle. Sembra Enrico Berlinguer. “É John Kennedy. Ma potrebbe essere anche Berlinguer: mi piaceva molto”.

Dottor Della Valle, il tema di queste interviste è lo stato di salute del Paese. Come sta l’Italia?
Purtroppo alla deriva. É chiaro a chiunque che il Paese vive una situazione difficilissima che si è venuta a creare grazie a una cattiva gestione dell’Italia negli ultimi trent’anni, e non solo da parte della politica, ma anche di un certo tipo d’impresa e finanza, della burocrazia: mondi che hanno sempre stretto legami reciproci e sono ugualmente responsabili.

Che impressione le fanno le immagini delle proteste di piazza?
I cittadini hanno seri motivi di lamentarsi, da anni. Hanno finora sempre avuto pazienza e civiltà, trovando modi pacati per protestare: penso per esempio all’astensionismo elettorale, una manifestazione chiara di malcontento e sfiducia. Oggi all’insofferenza si aggiunge la sofferenza di chi è veramente sopraffatto dai problemi. Attenzione: bisogna vedere come questo malcontento si manifesterà nel futuro. É un fenomeno che, se mal guidato, può essere potenzialmente pericoloso.

Teme che la situazione precipiti?
Speriamo di no e bisognerà capire bene cosa c’è dietro. E se dietro questo malumore delle persone per bene tentino di nascondersi quelli che chiamano i “professionisti della protesta”: sarebbe un problema. Ma la risposta all’esasperazione la dovrebbe dare la classe politica e chi ci governa facendo le cose più urgenti che servono al Paese. Se nell’arco di massimo qualche mese sapranno mostrare che finalmente non siamo di fronte alle solite chiacchiere inconcludenti, forse i cittadini saranno disposti a dare fiducia. I nuovi protagonisti della politica che negli ultimi tempi hanno preso in mano il Paese sono persone giovani che hanno promesso di fare le cose importanti in fretta. Soprattutto hanno promesso che ci sarà discontinuità. La discontinuità è indispensabile se si vuole veramente cambiare e annullare il potere di una classe dirigente che rappresenta la vecchia politica.

Il nostro premier è stato ministro 15 anni fa. Mica tanto “discontinuo”…
Come ho avuto modo di dire spesso, Enrico Letta è una persona che non ci fa vergognare per come ci rappresenta in giro per il mondo. Già questo è un passo avanti: negli ultimi trent’anni ci è capitato una o due volte al massimo. Ora però deve assolutamente, nell’arco dei prossimi due mesi, fare cose importanti per il futuro del Paese. Sarà giudicato in base ai risultati che otterrà. Capiremo per come sarà disposto anche ad affrontare il tema della discontinuità, se sarà da considerare un giovane politico con una visione nuova e positiva oppure un giovane politico ancorato al vecchio sistema e ai vecchi riti della politica. Mi auguro che le cose le possa fare e che possa dimostrarcelo in fretta.

Sulla legge elettorale però una sveglia l’ha data la Consulta.
La Consulta è arrivata prima della politica e questo non ha certamente migliorato le aspettative degli italiani: speriamo recuperino in tempi brevissimi. Ho sentito in tv il discorso di Renzi a Milano. Ha preso impegni precisi, a brevissimo termine. Nella stessa direzione hanno dichiarato di volersi muovere gli altri nuovi leader politici: voglio dare fiducia a ciò che hanno detto e aspettare insieme a tanti italiani che queste cose vengano fatte per davvero. Il problema non è una politica di destra o di sinistra, ma se avremo una politica seria e preparata.

Destra e sinistra esistono ancora?
I politici proclamano le loro differenze, visto l’appiattimento degli ideali però si fatica a capire chi è di destra e chi di sinistra. Alla gente interessa di più valutare la serietà e la competenza dei politici, non la loro provenienza. Tutti continuano a dire che in troppi non arrivano alla fine del mese, ma oltre a parlarne molto, bisognerebbe capire che “fare le cose” e “farle in fretta”, è fondamentale ora più che mai. C’è bisogno di competenza per agire, di competitività per poter avere un futuro e di molta solidarietà. In questo momento, secondo me, è importantissimo che competitività e solidarietà marcino nella stessa direzione.

Ecco: solidarietà è una parola svanita nel lessico della sinistra.
Non ne farei una questione di colore politico. La solidarietà tra le persone per bene esiste, fa parte dell’animo umano. A questo dobbiamo aggiungere le energie di chi sa essere competitivo: è una ginnastica mentale, bisogna imporsi di non trascurare i due aspetti. Chi fa impresa, vista la drammatica situazione, ha una responsabilità in più. Senza prevaricare il ruolo delle istituzioni, le imprese sane possono fare molte cose per il sostegno di chi ha più bisogno.

Facciamo un esempio concreto.
Se vuole le faccio un esempio che ci riguarda. Oltre a tante altre cose che facciamo da tempo, quest’anno il consiglio d’amministrazione ha stanziato l’1% dell’utile netto del gruppo per iniziative di solidarietà locali, per aiutare chi ha bisogno di aiuto nel nostro territorio. I risultati sono stati ottimi e molte persone ne hanno avuto beneficio. Se con un compasso segnassimo i territori delle imprese che hanno la fortuna di funzionare bene, si potrebbe coprire buona parte del territorio italiano e aiutare molto le persone in grave disagio. Quindi in attesa che lo Stato riesca a pensare a tutti, oltre a dare soluzioni pratiche, queste operazioni servirebbero ad alleggerire la tensione sociale che si respira. Le persone vogliono che siano garantiti salute, sicurezza e istruzione, una vita dignitosa e prospettive per il futuro dei loro figli.

L’Italia è ancora una Repubblica fondata sul lavoro?
Deve esserlo: i cittadini chiedono di poter lavorare, non favori o regali.

Quanto ha pesato il rigore del governo Monti sulla situazione attuale?
Oggi c’è un tiro al bersaglio su Monti. Credo però che all’inizio abbia fatto bene e che il suo arrivo sia in qualche modo servito ad arginare problemi gravi, che magari qualcuno in Europa ha un po’ ingigantito. Poi la mancanza di una conoscenza del tessuto industriale, dell’Italia e del mondo del lavoro, credo l’abbiano allontanato dalle vere esigenze e dalle priorità. Dire che ha sbagliato tutto però lo trovo ingiusto. Secondo me avrebbero dovuto avere più carattere nel discutere con la Germania dei nostri problemi, in modo da ottenere le necessarie moratorie per permetterci di sistemare i conti e allo stesso tempo di pensare allo sviluppo.

Che posizione ha sull’Euro?
Non mi pongo nemmeno il problema di uscirne: è una cosa che non reputo possibile e utile. Dobbiamo stare nella moneta unica. Dobbiamo poter usare il sistema dell’euro per uscire dalla situazione in cui ci troviamo, strutturando un piano di sistemazione dei nostri debiti che ci permetta anche di pianificare una parte di sviluppo. Un’Europa senza l’Italia credo potrebbe avere grossi problemi. Non abbiamo altre strade e quindi chi per noi discute in Europa di questi argomenti deve farlo con determinazione e autorevolezza.

Meglio la prima o la seconda Repubblica?
Se proprio debbo scegliere, la prima. È stupido generalizzare, ma prima c’erano persone con più spessore e ideali. Non voglio dire che nella seconda Repubblica non ci siano anche persone per bene, ma credo che l’etica e la morale si siano enormemente ridotte. I nuovi circuiti politici – che hanno estremizzato il concetto di “stare dentro o fuori”, “chi non è con me è contro di me” – hanno costretto i meno forti ad accettare mediazioni pur di rimanere al loro posto. Nella classe politica precedente c’erano un senso della cosa pubblica e dello Stato più forti, forse perché alcuni leader venivano dalla guerra e da situazioni di forte disagio.

Tanti si sono riciclati.
Vero, per questo ci vuole discontinuità: sarebbe bello e civile. Anche se – mi rendo conto – è un’utopia credere che molti di questi protagonisti decidano da soli di fare un passo indietro.

É andato a votare alle primarie?
Si. Ho votato per Matteo Renzi: ha detto cose condivisibili e soprattutto che si sarebbe mosso in fretta. Il vantaggio è che il giudizio su Renzi lo potremo dare tra qualche mese. Da come parla, ha voglia di farsi giudicare in tempi brevi. Questo vale anche per Letta e Alfano: diamo loro fiducia e vediamo cosa faranno.

La vicenda del Colle – la nuova elezione di Napolitano e il modo in cui lui ha interpretato il nuovo mandato – non è stata nel segno della discontinuità. Sarà un ostacolo al rinnovamento?
Penso che il Presidente Napolitano sia una persona per bene, che ha fatto una buona cosa per il Paese quando ha deciso di rimanere ancora per un breve periodo, mettendo una politica inadempiente di fronte alle proprie responsabilità: in primis penso alla legge elettorale. Stiamo tutti aspettando questa cosa, con i tempi siamo già in ritardo. Credo però che appena terminati questi passaggi sia giusto che Napolitano, come lui stesso ha detto di voler fare, possa lasciare il posto a un nuovo Presidente che non debba essere più garante di una classe politica che buona parte dei cittadini non rispetta più. Il rischio oggi è che molti politici si nascondano dietro l’autorevolezza del Quirinale e questo francamente non è giusto. Gli italiani vogliono potersi scegliere le persone e valutarle per il loro operato.

Il Parlamento ha abdicato alla propria missione? Si è fatto dire cosa fare e in che tempi dal Presidente della Repubblica, si è fatto dire dalla Consulta che la legge elettorale è incostituzionale… La Corte dei conti ha pure sollevato una questione di legittimità sul finanziamento ai partiti: sono sempre all’inseguimento.
Non c’è dubbio: infatti la gente non si riconosce più in loro. La fiducia dei cittadini nei partiti è sprofondata. Basta guardare i sondaggi. E se quelli non bastano, il crescente astensionismo. Si evoca spesso la “responsabilità” dei cittadini ma credo che oggi sia la politica a dover dimostrare responsabilità. Le distinzioni tra competenze del Presidente del Consiglio e del Presidente della Repubblica devono essere precise, senza nessuna ingerenza reciproca. Altrimenti si toglierebbe credibilità al sistema.

Cos’è l’antipolitica? I partiti che hanno indici di gradimento da prefisso telefonico o quelli che dicono “tutti a casa”?
Più le situazioni sono difficili, più ci vuole la necessaria calma nel gestire le cose. Io credo che tante persone per protestare abbiano “prestato” il proprio voto, ma che sarebbero pronti a dare fiducia a qualcuno che dimostri, con i fatti, la volontà di cambiare. Urlare molto e non fare dove ci porta? L’interesse di chi vuol bene all’Italia è ricostruire, non distruggere. Ciascuno deve dare quello che può. Mi pare chiaro che il mondo del lavoro ha dato anche più di quello che poteva, ora è la classe dirigente che deve darsi da fare.

È favorevole a una tassazione dei grandi patrimoni?
Sì sono disponibile, ma a patto che non sia un sacrificio che finisca nel mare magnum, dell’inefficienza della macchina statale. Vorrei aggiungere una cosa, però: non dobbiamo pensare che sia un obbligo. Ci può essere qualche mio collega che dice “io faccio già abbastanza perché vivo e produco in un Paese strangolato dalla burocrazia e dalle tasse”. Non avrebbe torto a pensarla così, ma penso che chi può dovrebbe essere il primo a rispondere alla chiamata.

Mai stato tentato dalla politica? Nemmeno quando Montezemolo è quasi “sceso in campo”?
Personalmentemai.HosempredettoaLucacheha fatto buone cose, che la politica è un altro mestiere completamente diverso dal nostro, cui bisogna dedicarsi completamente. Credo che esporsi, come faccio io, sia comunque un modo per dare un contributo come cittadino. Tenga conto che oggi ho l’età di quelli che dovrebbero andare a casa e comunque non è affatto detto che un bravo imprenditore sia un bravo politico. Sicuramente l’efficienza e ilpragmatismoaiutano ,malapolitica vuol dire sapersi occupare soprattutto del bene comune, un argomento più complesso.

Ne abbiamo avuto un esempio con Berlusconi.
Io e Berlusconi ci siamo detti con chiarezza e magari durezza quello che pensavamo anni fa. Ce lo siamo detti in faccia e in pubblico. Le nostre posizioni sono reciprocamente chiare. Adesso parlerei invece della nuova classe politica di destra e sinistra, di altre persone giovani che hanno voglia d’impegnarsi per il bene dell’Italia. Noi possiamo, se richiesto, dare qualche consiglio e mettere a disposizione la nostra esperienza. La palla ora è a loro. Non ci sono soluzioni diverse.

Letta ha sempre fatto il politico. Così – in misure e modi diversi – Alfano, Cuperlo, Renzi e Civati. Essere professionisti della politica è un bene?
Se fosse concepita come la costruzione di un percorso, nel senso dell’acquisizione di competenze, sarebbe una cosa buona. Il problema della vecchia politica era che a fare il ministro dell’economia si metteva o un amico o uno cui si dovevano dei favori o qualcuno che garantisse equilibri: spesso venivano privilegiati gli amici fidati e non le persone di grande competenza. La politica ha grandi colpe, ma altrettante ne ha la grande impresa e la finanza che ha spesso manovrato la politica.

Lei è molto amico di Clemente Mastella: quando fu nominato Guardasigilli non aveva competenze in materia di giustizia.
Mastella più che un amico per me è un fratello. Per come lo conosco io, è un uomo con pregi e difetti della politica della prima Repubblica, ma non un uomo di potere. Se fosse stato un uomo di potere non avrebbe avuto tutti i problemi che ha avuto negli ultimi anni. Per quanto riguarda le competenze, quando ha avuto incarichi di governo, anche lui come tanti altri era carente. Ma ho sempre visto in lui una grande umiltà nel farsi consigliare da buoni tecnici. A Clemente mi accomuna l’attaccamento alle origini, semplici, le abitudini ai nostri luoghi e anche il fatto di non aver dimenticato le persone del nostro mondo.

Le clientele finiranno mai?
Guardando anche fuori dal nostro Paese mi viene da dire di no. In Italia, in questo senso, si possono fare passi da gigante.

Le capita spesso che le chiedano favori?
Qualche volta le persone semplici più che favori chiedono lavoro. Se intende favori ad “alta quota” io non ho né il carattere né la reputazione di uno che sta in quei giochi. Il mondo delle auto-cooptazioni non l’ho mai accettato e sicuramente è un mondo che non ha mai accettato me. Avevo l’idea che certi ambienti, diversi dal mio mondo imprenditoriale, fossero utili per cercare di aiutare o cambiare il Paese.

Quali ambienti?
Quelli che ho frequentato al di fuori del mio mondo. Poco più che trentenne consideravo Mediobanca, Rizzoli, Comit i sancta sanctorum del Paese. Visti dal di fuori erano gli ambienti dove si decidevano le cose importanti dell’Italia. Ho dovuto, appena ci ho messo piede comprando pacchetti azionari, rendermi conto che qualcuno pretendeva di pesare le azioni e non di contarle. Alcuni di questi, sono quelli che io ho definito, senza voler mancare di rispetto, “arzilli vecchietti”.

…Giovanni Bazoli?
In quel caso mi riferivo a Cesare Geronzi e Giovanni Bazoli, ma la fila può allungarsi con facilità. Non avevo nulla di personale nei loro confronti, ma era necessario iniziare, appunto, un processo di discontinuità per cambiare quei mondi. Questa presa di posizione mi ha creato qualche dispiacere personale perché con Geronzi ci conoscevamo bene e avevo simpatia per lui.

Piergaetano Marchetti – membro del cda Rcs e arbitro della grande finanza milanese – ha detto che il capitalismo di relazione è finito: lei lo auspicava da tempo.
Ho visto che il professore si è chiamato fuori: ma lui è stato uno dei grandi sacerdoti del capitalismo di relazione! Credo che Marchetti idealmente avrebbe voluto chiamarsi fuori, ma non ha avuto mai il coraggio necessario. Alla fine ha barattato il suo sincero atteggiamento ideologico per qualche poltrona e per un po’ di potere. Detto questo lo considero una persona per bene.

Che cosa succede al Corriere della Sera?
Purtroppo chi gestisce il Corriere oggi non ha le competenze necessarie per guidare un’operazione tanto complessa. Credo che gli azionisti dovranno responsabilmente prendere qualche decisione. Del resto il patto di sindacato, che anch’io desideravo sciogliere, è finito grazie anche alla lungimiranza di persone come Alberto Nagel, Merloni e Carlo Cimbri. Perché in tanti restano all’interno di una casa editrice che fatica ad avere una prospettiva se immediatamente non cambia qualcosa? Tenteranno di rimanere finché il Corriere potrà essere considerato uno dei due giornali leader del Paese, cioè una merce di scambio tra quello che resta dei poteri forti e politica. Bazoli si è inventato di tutto per restare lì e sicuramente il Corriere è stato uno dei mezzi che gli hanno permesso di costruire la sua carriera. Ora, per fortuna, tutto questo è alla fine.

Perché ha sottoscritto l’aumento di capitale del Corriere?
Se a luglio – sapendo bene che quel denaro era buttato dalla finestra – non avessi sottoscritto l’aumento di capitale, avrei lasciato il campo libero a quel vecchio mondo che ho descritto poco fa. Essere rimasto e aver contribuito allo scioglimento del patto di sindacato è stato, credo, un modo per mantenere il Corriere libero da forti pressioni. Ora sarebbe auspicabile che gli azionisti prendessero atto che il Corriere è anche uno strumento necessario alla ripartenza del Paese: quindi dev’essere guidato con indipendenza e senza interessi di sorta. Se riuscissimo a trovare un editore vero che si occupasse della gestione sarebbe utile per il futuro della casa editrice e di chi ci lavora.

E lei? Perché ha fatto battaglie all’ultimo sangue al Corriere?
Per la libertà. Perché la mia linea era “proviamo a fare tutti un passo indietro, troviamo un editore puro a cui far gestire il giornale”. Non è stato trovato, ma sarebbe stato meglio dimensionare le quote e fare comunque un passo indietro. Pensavo e dicevo che i patti di sindacato non servissero più anni fa, quando sono uscito da Mediobanca. Chi ha capito che i patti, come sistema, erano anacronistici? Persone giovani come Nagel e Cimbri.

Anche John Elkann è giovane.
Al di là delle polemiche che ci sono state, mi dispiace per Yaki che conosco sin da quando era ragazzino. Credo sia mal consigliato. A parte quello che ho tentato di dire a lui e a Sergio Marchionne (di cui ero amico) credo che la famiglia Agnelli, che tanto ha avuto dal Paese, in un momento difficile come questo, avrebbe dovuto restituire qualcosa agli italiani.

Ultima: si fanno battute sui suoi braccialetti. Cosa risponde?
Abbiamo parlato di cose serie fino a ora… Comunque i braccialetti sono regali che io e miei figli ci facciamo a vicenda, ricordi delle vacanze insieme. E forse un modo per non invecchiare troppo convenzionalmente. Come i jeans slavati.

twitter @silviatruzzi1

da Il Fatto Quotidiano del 22 dicembre 2013

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