La cosiddetta web tax sta sollevando polemiche sia tra i commentatori, sia tra gli stessi compagni di partito del promotore Francesco Boccia. Tanto che, dopo le critiche del neo-segretario Matteo Renzi, la web tax è stata riveduta e corretta in sede di Commissione parlamentare, tagliandone un pezzo. Ovviamente, quello sbagliato.

Facciamo un passo indietro. Il problema, arcinoto, riguarda la tassazione sulla vendita di servizi Web. La questione è stata spesso archiviata frettolosamente usando espressioni fuorvianti come “Google non ha pagato tasse per 1 miliardo di euro”, che non aiutano a mettere a fuoco il problema. Ciò che succede, più esattamente, è che molti degli operatori che agiscono sul web (e non solo Google) “dirottano” il fatturato in paesi che hanno una forma di tassazione più conveniente (di solito Irlanda e Lussemburgo) per aumentare i profitti. Risultato: i suddetti operatori fanno affari in Italia ma pagano le tasse altrove. Da qui la proposta di Francesco Boccia, che vorrebbe obbligare chiunque voglia vendere prodotti e servizi in Italia ad aprire una partita Iva italiana.

La proposta, perlomeno al livello di un sentimento di “giustizia” suona anche bene, ma ha qualche piccola controindicazione. Prima tra tutte la sua probabile incompatibilità a livello di accordi dell’Unione Europea. In secondo luogo c’è il rischio (o la certezza) che una simile misura finirebbe per ripercuotersi sui prezzi praticati in Italia, finendo così per gravare più che altro sui consumatori. Buon’ultima arriva la solita paranoia dei politici di casa nostra che temono di dare l’impressione che l’Italia non sia un paese “attraente” per gli investimenti stranieri o “poco votata all’innovazione”. L’ultima, ovviamente, è la solita fesseria con cui si riempiono la bocca i politici di casa nostra senza capire nemmeno di cosa stiano parlando.

Se abbandoniamo la dimensione della “giustizia” e passiamo a una visione più pragmatica, l’urgenza di trovare una soluzione al problema è probabilmente dovuta all’emorragia di entrate fiscali che si sta verificando nel nostro paese.  Da quando hanno abbandonato la dimensione “fisica” per approdare su Internet, i beni immateriali (musica, libri, video e software) non portano più soldi alle casse dell’erario. Gli MP3 e gli e-book che acquistiamo online, i film che noleggiamo e persino i software che usiamo per lavorare vengono regolarmente fatturati per conto di società che risultano avere sede in Lussemburgo o in qualche altro paese europeo. Il problema reale ha un nome ben conosciuto: si chiama dumping fiscale. Una pratica perfettamente legale che non ha rappresentato un grosso problema per molto tempo, ma oggi (e ancor più domani) rischia di trasformarsi in una vera bomba.

Si tratta di uno dei “piccoli” difetti della globalizzazione, o meglio della visione della globalizzazione che hanno dalle parti del WTO e dell’Unione Europea. Nella visione romantica della competizione nel “grande mercato globale”, infatti, sembra che nessuno abbia considerato il fatto che i beni immateriali avrebbero trovato casa (fiscale) non nei paesi produttori o con grandi capacità di innovazione, ma più semplicemente in quelli pronti ad abbattere a livelli ridicoli la tassazione. Risultato: più profitti per le imprese, meno entrate per l’erario degli altri paesi e incassi record per chi è disposto ad agire come paradiso fiscale per i colossi del web. Un problema quindi squisitamente politico, che non si può risolvere con un emendamento alla Legge di stabilità, ma mandando qualcuno in sede Ue a battere i pugni sul tavolo, dimostrando finalmente di avere le “palle d’acciaio” che sembra gli vengano attribuite oltreconfine. Ben venga quindi l’accantonamento della Web Tax, nel nome di una più seria analisi del problema che deve coinvolgere un ambito internazionale o, per lo meno, europeo.

Da tutta la vicenda, però, si deduce che la nostra classe politica (come al solito) ha le idee abbastanza confuse. Perché di tutte le controindicazioni all’emendamento Boccia, hanno preso in considerazione solo quella dettata dal generico “ossequio al libero mercato”. In sede di Commissione parlamentare, infatti, l’emendamento Boccia è stato modificato eliminando uno dei due commi, con la conseguenza che a essere tassate sarebbero solo le inserzioni pubblicitarie sul web, ovvero, l’unico tipo di servizio che è veramente “extra-territoriale” come spiega benissimo Guido Scorza nel suo post.  Probabile quindi che, alla fine, salti anche questo pezzo. Meno probabile che qualcuno apra una discussione seria sul tema. Perché i politici nostrani, si sa, su Internet ci scrivono, mica leggono. 

Articolo Precedente

Rai, Antonio Caprarica lascia: “Pressioni e metodi offensivi da parte dei vertici”

next
Articolo Successivo

Violenza sulle donne, la pubblicità progresso che non cambia nulla

next