Sì, avete letto bene. Dopo lunghe e ponderate considerazioni, sono giunto alla conclusione che il vero obiettivo del governo Letta è quello di assestare il colpo di grazia al copyright e proiettare il nostro paese tra le avanguardie della condivisione libera. Naturalmente lo fa senza rendersene conto, ma questo non rende meno meritoria la sua azione. Il nuovo provvedimento Destinazione Italia, infatti, è un capolavoro di miopia che potrà avere due effetti: cancellare Internet o cancellare il copyright. Sinceramente, propendo per la seconda ipotesi.

La parte più interessante del nuovo abominio è questa: “Laddove sia stata apposta dichiarazione di riserva, la riproduzione, la comunicazione al pubblico e in ogni caso l’utilizzazione, anche parziali, in ogni modo o forma, ivi compresa l’indicizzazione o aggregazione di qualsiasi genere, anche digitale, di prodotti dell’attività giornalistica, compresi la forma e il contesto editoriali, pubblicati a stampa, con mezzi digitali, tele-radiodiffusi o messi a disposizione del pubblico con altri mezzi, è consentita solo previo accordo tra il titolare del diritto di utilizzazione economica dei prodotti medesimi, ovvero le organizzazioni di categoria dei titolari dei diritti a ciò delegate, e l’utilizzatore, ovvero le organizzazioni di categoria degli utilizzatori a ciò delegate. In mancanza di accordo sulle condizioni anche economiche dell’utilizzazione, dette condizioni sono definite dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, su istanza della parte interessata”.

Insomma: per indicizzare una notizia che è stata bollata come “riproduzione riservata”, bisogna pagare. Per essere più chiari: secondo il governo, con questo regolamento Google, Bing, Flipboard e simili correrebbero a versare denaro nelle casse di Repubblica.it, Corriere.it e tutti quegli altri brontosauri che concludono i loro articoli con la fatidica dicitura “Riproduzione riservata”. Ora, dalle parti di Palazzo Chigi deve essere sfuggito un concetto chiamato comunemente “potere contrattuale”. Sulla base di questo semplice concetto che da Marx in poi dovrebbe essere abbastanza chiaro, prima di emanare un regolamento del genere bisognerebbe chiedersi “ma Google, Bing e Flipboard saranno disposti a pagare pur di poter indicizzare i contenuti di chi blinda col copyright i suoi contenuti?”. Se qualcuno si fosse posto la domanda, avrebbe constatato come la risposta sia un netto e sonoro “NO”. I brontosauri di cui sopra, follemente innamorati del loro diritto d’autore, verrebbero snobbati dai motori di ricerca e finirebbero presto nell’oblio. Perché? Perché Internet funziona così. Punto e basta.

Se poi qualche giudice, comitato o capo tribù dovesse decidere che anche Facebook agisce come un aggregatore o un indicizzatore (ipotesi tutt’altro che remota) possiamo scommettere che il traffico dei suddetti brontosauri crollerebbe ai minimi storici nel giro di una manciata di giorni. Ed ecco l’elemento rivoluzionario: stante la nuova legge, l’unica soluzione che i brontosauri avrebbero per non essere cancellati dal web sarebbe quella di rinunciare a mettere il copyright sui loro “contenuti” e adottare qualcosa di più moderno e civile, come il Creative Commons. Benvenuti nel terzo millennio. Fino al prossimo asteroide.

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