“Una miniera d’oro politica”. “La questione che potrebbe consegnare il Senato ai democratici”. Sono alcune delle dichiarazioni fatte in queste settimane dagli strateghi democratici che preparano la campagna del partito per le elezioni di midterm 2014. La questione è quella dell’uguaglianza economica, riportata prepotentemente in cima all’agenda della politica americana dagli scioperi dei lavoratori dei fast-food e dalla battaglia sui minimi salariali.

È proprio sulla spinta delle richieste di aumenti salariali e di una maggiore giustizia sociale che i democratici sperano di far dimenticare l’esordio infelice della riforma sanitaria e unificare alcuni dei gruppi di cui hanno più bisogno alle elezioni 2014: ispanici, afro-americani, donne, blue-collars del Sud.

“L’ineguaglianza è il tema che definisce meglio la nostra epoca”, ha detto Barack Obama mercoledì scorso, durante un discorso organizzato dal “Center for American Progress”, un think-tank di orientamento progressista. Spiegando che la giustizia sociale è ciò che “guida la mia azione da quando sono alla Casa Bianca”, Obama ha delineato il piano da sviluppare negli anni che gli restano da presidente: rafforzamento del sindacato, riduzione delle differenze salariali tra uomini e donne, college più accessibili per i giovani americani. Il giorno dopo il discorso di Obama, giovedì, in decine di città americane si sono svolte le manifestazioni dei lavoratori di McDonald’s e di altri giganti della ristorazione, che da mesi chiedono un aumento dei salari a 15 dollari all’ora e il diritto alla rappresentanza sindacale. La paga media oraria per un dipendente di McDonald’s è oggi di 8,94 dollari all’ora; poco più alto del minimo federale fissato a 7,25 all’ora. “La gente non può sopravvivere con stipendi di 8-9 dollari all’ora”, fanno notare i rappresentanti della “Service Employees International Union”, che ricordano anche i profitti record delle società. McDonald’s, nel 2012, ha dichiarato 5 miliardi e mezzo di guadagni e tutto il settore appare destinato a nuovi, consistenti ricavi per il 2013.

In questi anni si è del resto assistito, e si assisterà ancora nei prossimi mesi, a un progressivo impoverimento delle classi lavoratrici, che è andato di pari passo con uno dei più massicci piani di attacco ai diritti sociali della storia americana. I tagli previsti nel 2014, nell’ambito della cosiddetta “sequestration”, cancelleranno i buoni di assistenza agli affitti per circa 140 mila famiglie a basso reddito. Chi riuscirà a mantenere la propria casa avrà forse qualche difficoltà a riscaldarla. Le sforbiciate al “Low Income Home Energy Assistance Program” priveranno circa 300 mila famiglie degli aiuti per caldaie e riscaldamenti. La scure si è abbattuta e si abbatterà ulteriormente anche sui buoni alimentari. Già 47 milioni di americani si sono visti tagliare i food stamps; e i repubblicani stanno insistendo per risparmiare altri 39 miliardi di dollari del “Supplemental Nutrition Assistance Program” (SNAP) nei prossimi dieci anni.

Se casa, cibo e riscaldamento non bastano, ci sono stati i tagli all’educazione, sempre dei più deboli: 57 mila bambini sono stati scaraventati fuori dalle aule degli asili per la riduzione dei fondi del “Head Start Program”. Non è andata meglio ai disoccupati. Tra gennaio e marzo 2014 chi è stato senza lavoro per più di 27 mesi – circa il 40% dei disoccupati – subirà tagli ulteriori ai propri benefici sociali. La logica, esplicitata dal deputato repubblicano dell’Ohio Jim Jordan, è che la gente non cerca lavoro se sa di poter contare sugli assegni di disoccupazione. “I tagli del sequester sono stati una delle cose buone di questi anni”, ha spiegato Jordan. Una tesi apertamente contestata da economisti come Paul Krugman e politici come Elizabeth Warren, secondo cui sono invece i tagli a investimenti e spesa pubblica ad alimentare la recessione economica. Nel futuro la situazione non dovrebbe comunque migliorare. Nei prossimi dieci anni 230 miliardi di dollari verranno progressivamente sottratti ai programmi di Social Security.

È in questa situazione di progressivo impoverimento di fasce sempre più larghe di popolazione che la questione di una maggiore giustizia sociale riprende forza all’interno della discussione politica americana. “Per la prima volta da tempo immemorabile, i lavoratori tornano a essere protagonisti dei nostri notiziari”, ha scritto l’opinionista E. J. Dionne Jr. Il disagio e l’insofferenza verso la marcata diseguaglianza sembra d’altra parte conquistare settori di elettorato che tradizionalmente non votano a sinistra. A favore di un innalzamento dei minimi salariali si dichiara il 76% della popolazione: tra questi, c’è il 58% dei repubblicani, il 72% dei bianchi e l’80% di chi vive al Sud. Sono cifre che hanno spinto il partito democratico a ripensare le proprie strategie per il futuro e a immaginare un blocco sociale ed elettorale che unisca neri e ispanici, tradizionali bastioni di voto democratico, e classe operaia del Centro e soprattutto del Sud, che a partire dalla metà degli anni Sessanta si è invece sempre più spostata verso i repubblicani.

La candidata democratica al Senato del Kentucky, Alison Lundergan Grimes, ha citato proprio la questione dei minimi salariali nei suoi spot elettorali, dove ha spiegato di considerare il leader repubblicano del Senato Mitch McConnell colpevole “per la sua opposizione all’innalzamento dei salari minimi, mentre lui diventava multi-milionario al Senato”. La progressiva mobilitazione popolare, sostenuta e nutrita dal principale sindacato, l’AFL-CIO, ha portato alla proposta dei senatori democratici di alzare i minimi salariali da 7,25 a 10.10 dollari, legandoli poi all’inflazione. Una proposta appoggiata da Barack Obama.

Raccolte di firme per referendum sui salari minimi sono in questo momento in corso in South Dakota, Arkansas, Alaska, New Mexico e Massachussetts. E leggi per aumentare i minimum wages sono state votate in California, New York, Connecticut, Rhode Island e New Jersey. “La questione della diseguaglianza può sicuramente far crescere l’affluenza al voto delle minoranze e delle persone che guadagnano meno di 50 mila dollari”, chiosa Michael Podhorzer, direttore politico dell’AFL-CIO.

La battaglia negli ultimi mesi si sta concentrando soprattutto negli Stati del Sud. È in queste zone, oggetto dalla metà degli anni Sessanta di una lenta ma continua rivoluzione culturale e sociale che ha portato alla quasi totale estinzione dei Southern Democrats, che i repubblicani stanno concentrando più risorse per strappare ai democratici la maggioranza di 60 seggi al Senato. Nel mirino ci sono soprattutto tre senatori democratici: Mary Landrieu della Louisiana, Mark Pryor dell’Arkansas e Kay Hagan del North Carolina. I tre, eletti in aree politicamente e culturalmente conservatrici, sono da mesi oggetto di una massiccia opera di demolizione da parte dei repubblicani. È soprattutto la questione del loro appoggio alla riforma sanitaria di Obama a essere oggetto di discussione. “Perché la senatrice Landrieu non ci ha protetto dall’Obamacare?” si chiede una pubblicità elettorale pagata dagli “Americans for Prosperity”, il think-tank conservatore dei fratelli Koch. La questione di una maggiore giustizia sociale potrebbe venire dunque in soccorso dei candidati democratici. Non è un caso che i tre senatori “in bilico”, Landrieu, Pryor e Hagan, si siano tutti dichiarati per l’innalzamento dei minimi salariali.

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