Dopo quasi dieci ore di trasvolata oceanica, la prospettiva di addentrarsi nel buio di una sala cinematografica, non è forse l’esperienza che la maggior parte dei viaggiatori, diretti a Cuba, predilige. Gli avventori stranieri, soprattutto europei o nord-americani, cercano piuttosto passatempi sotto il sole, magari sorseggiando un cocktail, alla maniera di Hemingway.

Ragion per la quale, anche sfogliando guide minuziose sulla rivoluzionaria terra nell’arcipelago delle Antille, è di rado menzionato il Festival Internazionale del cinema, che si svolge a L’Avana, ogni mese di dicembre.
Muoversi alla scoperta dell’isola socialista, immergendosi nell’atmosfera dei maestosi cinematògrafi della capitale, può apparire, ai più, un itinerario decisamente bizzarro. D’altro canto, la finzione filmica, lungi da rimpiazzare la suggestione dell’incontro con le bellezze paesaggistiche, o con i protagonisti, e testimoni, delle complesse vicende del Novecento cubano, resta una realtà immaginata.

Mentre, andare a spasso su colline di palme e manghi, abbandonarsi alle tradizionali sonorità delle congas (tamburi cubani), o, semplicemente, assopirsi sul bagnasciuga tropicale, tra un bagno e l’altro, sono topici che invocano un’esperienza diretta da parte del viandante. Eppure, l’entusiasmo, con cui il popolo dell’Avana accoglie la rassegna cinematografica, è coinvolgente a tal punto che l’ipotesi di accodarsi, ed eventualmente accaparrarsi un biglietto per la proiezione, diventa non solo la variabile di incertezza che piace, bensì, anche un gesto di spontanea interazione sociale con gli abitanti di questa immensa area metropolitana.

L’Havana Film Festival giunge quest’anno alla 35esima edizione. Intende offrire, ai cine-spettatori cubani, come a coloro di passaggio, una retrospettiva delle opere più significative, prodotte all’interno dell’immenso laboratorio filmico della realtà latinoamericana.

L’estensione geografica del continente, dal Golfo del Messico fino alla Terra del Fuoco, sembra idealmente condensata nella carovana di proiezioni che, nell’arco di una decina di giorni, si susseguono nelle sale della città. La narrazione assume le forme del lungometraggio, del documentario o del cartone animato. E l’impatto comunicativo trasmette, sin dai colori delle locandine dei film, un’eterogeneità creativa che riflette le storie di milioni di abitanti. Nello specifico, scuole di cinematografia, già largamente affermate anche a livello globale, sono quella argentina, brasiliana e messicana. Esse fungono altresì da traino, per progetti filmici provenienti da Paesi che ancora non possono contare su tradizioni di lungo periodo, e che, in via sperimentale, si misurano con un grande Festival.

Come ogni anno, verrà assegnato il premio “Grand Coral” al miglior film. La premiazione si terrà il 15 dicembre prossimo, data di chiusura del Festival, presso il teatro Karl Marx di L’Avana. Compito della giuria, stabilire quale lavoro è più meritevole; quando nacque la manifestazione, nel 1979, il primo presidente della commissione di giurati fu, il premio Nobel, Gabriel Garcia Marquez.

È curioso assistere alla metamorfosi dell’Avana durante il Festival. La capitale sveste i panni della musa ispiratrice di tante produzioni filmiche (tra le più celebrate vale la pena ricordare “Buena Vista Social Club” e “Comandante”), che hanno contribuito a plasmarne l’immaginario collettivo, e offre se stessa in qualità di strumento di promozione dell’identità culturale sudamericana tout court. L’architettura cangiante dei colonnati urbani, e delle sale che ospitano l’appuntamento cinematografico, ne raccontano lo sviluppo cittadino: a volte la maestosità, altre la decadenza, e la tonalità delle pitture, nei vari cinema, richiamando quartieri e volti della città.

A tal proposito, se il Karl Marx, per dimensioni, cura del dettaglio e dell’organizzazione, è scenario esemplare di apertura e chiusura del Festival, che rende idealmente omaggio alla rivoluzione del 1959, ben altra cosa è l’esperienza del cinema “Payret”. Sorto nel barrio Pogolotti, il fabbricato palesa un’immagine più affine alle “ceneri” del socialismo cubano. L’assenza di un sistema di aria condizionata, nelle giornate più afose, obbliga gli spettatori ad autogestire la circolazione dell’ossigeno nella hall, ad esempio tenendo, a turno, le porte laterali di emergenza costantemente aperte. Le poltrone quasi delle trappole, un po’ imbottite, scucite, impolverate, insomma si rischia di finire incastrati o capitolare al suolo. L’insonorizzazione dall’esterno, un’utopia, così il chiasso degli stradoni adiacenti integra la proiezione a colpi di clacson, camion e auto americane degli anni ‘50 sbuffano nuvole di fumo che hanno ormai impregnato le pareti del “fu” cinema Payret.

Tra due estremi, esiste evidentemente una misura di equilibrato servizio per i cine-spettatori. Cinematografi moderni, come il “Charlie Chaplin”, incarnano il gusto della latente borghesia residente nel Vedado, e di quella più ricca, nelle villette di Miramar. Allo stesso modo, lo “Yara” ed il “Riviera”, eredità di vecchie costruzioni di epoca coloniale, ristrutturati in alcune delle loro parti, si collocano a metà strada tra abbandono e restauro, rimandando alla decadenza romantica, ammirabile nella suggestiva area di Habana Vieja.

Il Festival Internazionale del cinema dell’Avana, attraverso il lavoro di tanti registi, vuole parlare ai cubani delle direzioni possibili ed imprevedibili (già definita storica la stretta di mano tra Obama e Raul Castro durante la commemorazione di Nelson Mandela in Sud Africa), che la storia della loro isola intraprenderà nella transizione dal castrismo. Le sale si riempiono di giovani, di lavoratori, di massaie, di uomini e donne, abitanti di questa incredibile capitale. Una collettività multiforme che, terminati i doveri quotidiani, si mette in fila. Abitudine quotidiana, quella dei cubani, alla fila. Ci si raggruppa, sui gradini d’ingresso, in attesa che apra la biglietteria, ed è una coda già vista: per la ricarica del telefono, per le compere al supermercato, per ottenere le medicine, per salire sulla uaua (l’autobus), per comprare il gelato.

Se quanto fin qui detto può avere validità in termini di raffronto metaforico tra i cinema di L’Avana e la storia e il ruolo di Cuba nel mondo reale, bisogna altresì tenere presente che l’iniziativa di andare al cinema nasce dalla volontà incondizionata del singolo individuo, il quale, finito lo spettacolo, non deve certo compilare una richiesta specifica, motivando le ragioni della sua uscita dalla sala. Al contrario, pertanto, di ciò che avviene per lasciare il Paese reale. Le contingenze storiche e politiche, nonché i cambiamenti in corso ad esse riferiti (ad esempio la probabilità per i cubani di conseguire un passaporto già a partire dallo scorso gennaio), esulano dalla presente trattazione. L’identità di questa affascinante isola è frutto di avvenimenti e sacrifici, che meritano di essere approfonditi, anche quando i film di dicembre finiscono, e Cuba continua.

di Giorgio D’Anna

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