Un milione di persone negli ultimi cinque giorni hanno deciso di partecipare alle Primarie del Partito Democratico, sommandosi ai due milioni che già erano intenzionati a farlo come da previsione del coordinatore Nico Stumpo. È questo il dato politico più rilevante, visto che la vittoria del sindaco di Firenze era già acquisita dopo che una settimana prima aveva prevalso persino nella consultazione riservata agli iscritti del PD.

Cosa è successo in questi cinque giorni?

Semplice: la sentenza della Corte costituzionale sul Porcellum ha cambiato il significato politico del voto di ieri. La percezione per molti, infatti, è stata che il ritorno al proporzionale e l’assenza di una leadership forte avrebbero determinato il rinnovarsi del caos partitocratico e il ritorno alla palude della cosiddetta Prima Repubblica.

A quel punto, andare a votare e farlo per Matteo Renzi, ha rappresentato per quel milione di persone l’unico strumento a disposizione per sventare il rischio di un ritorno al passato.  Il segnale tangibile è stata la scelta di Romano Prodi di mettersi in fila davanti ai gazebo, motivando il suo ripensamento proprio con la sentenza della Consulta e la necessità di salvare il “bipolarismo”.

Parto da qui e lascio stare, per il momento, le riflessioni pur necessarie sul Partito democratico e i privilegi partitocratici di cui gode, sulle primarie che dovrebbero essere previste dalla legge per individuare i candidati alle elezioni piuttosto che il segretario di un partito, sugli spazi residui di agibilità democratica in Italia.

La tendenza politica riconoscibile nell’affluenza e nel successo di Renzi si colloca in continuità con il voto che 31 milioni di italiani espressero nel 1993 su due referendum radicali, uno per abolire il  finanziamento pubblico dei partiti e uno per mandare in soffitta il sistema elettorale proporzionale a favore del maggioritario basato sul collegio uninominale.

Più che una reazione di pancia a tangentopoli, quel voto referendario espresse un’idea complessiva di riforma della politica che fu poi tradita dal Parlamento.

Oggi come allora la scelta è tra due modelli opposti di intendere il rapporto tra Stato e cittadini: da una parte il modello che considera i partiti come un pezzo dello Stato, basato sul finanziamento pubblico e sul proporzionale; dall’altra quello che mette al centro la persona, eletto ed elettore, che si fonda su finanziamenti privati limitati, collegi uninominali e sistema maggioritario.

Sarà questo il primo banco di prova per giudicare Matteo Renzi: vorrà ricucire lo strappo tra sovranità popolare e sistema politico acuitosi in questi vent’anni con la truffa dei rimborsi elettorali e il combinato disposto Mattarellum + Porcellum? Sulla carta le intenzioni sembrerebbero queste, essendo stati due punti centrali della sua campagna.

Ma una cosa è chiedere al governo Letta di abolire del tutto e subito il finanziamento ai partiti, costringendo così lo stesso Pd a rivoluzionarsi davvero; altro sarebbe –come annunciato ieri dal neo segretario- presentare un disegno di legge costituzionale per tagliare 1 miliardo di euro di costi della politica chissà se e chissà quando.

Quanto alla legge elettorale, Renzi parla sempre del “sindaco d’Italia” ed è chiarissimo il riferimento al doppio turno per l’elezione diretta del premier. Ma i parlamentari come li eleggeremo, con il collegio uninominale – ovvero un territorio che esprime un eletto – oppure con le preferenze? Nel secondo caso, trionferebbe quel voto clientelare che produce i Fiorito ed è alla base del saccheggio consociativo di Comuni e Regioni. E quali saranno le garanzie per far tornare una parvenza di gioco democratico?

Basteranno pochi giorni per capire l’andazzo, mentre servirà più tempo per comprendere se tale processo sarà accompagnato dalla consapevolezza che la crisi strutturale delle democrazie e degli stati nazionali necessita di una analisi più profonda di quella che lo ha portato alla vittoria.

Il rischio altrimenti è che ripercorra la vicenda politica di Tony Blair, prima celebrato per la conduzione economica e oggi ricordato per le sue gravissime responsabilità sulla guerra in Iraq e l’introduzione massiccia di nuove forme strutturali di controllo sociale.

Rimane, infine, un’altra grande questione che da Radicale vivo da vicino: il superamento dell’ostracismo che nell’Italia repubblicana è stato riservato alla sinistra liberale. Che significa, in pratica, affrontare quelli che per il PCI-DS-PDS-PD sono stati dei veri e propri tabù: la giustizia, i sindacati (dei lavoratori come delle imprese), l’istruzione, le banche, il welfare e la spesa pubblica. Da cui anche il pluridecennale rifiuto del confronto e del dialogo con i Radicali, preferendogli negli ultimi vent’anni prima La Rete di Leoluca Orlando e poi l’Italia dei valori di Di Pietro.

Sotto quest’ultimo aspetto, Renzi non si è finora distinto dai predecessori, persino in occasione dei referendum da noi promossi questa estate: nei comizi parlava dell’urgenza di abolire il reato di clandestinità, il finanziamento ai partiti e riformare la giustizia, ma ai nostri tavoli la firma non l’ha voluta mettere.

Ora che è Segretario, mi auguro voglia rompere questi tabù e aprire un dialogo nuovo, ivi compreso il confronto sull’amnistia, su cui ha espresso contrarietà senza però indicare alternative rispetto alla violazione dei diritti umani, non solo dei detenuti ma anche delle milioni di famiglie condannate a processi che durano all’infinito, quando non vanno in prescrizione.

 

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