I cantieri aperti si susseguono lungo tutte le vie, ma di operai all’opera nemmeno l’ombra. Istantanee da Gaza, a sei anni dall’inizio dell’embargo e un anno dopo Pillar of clouds, l’ultima operazione militare israeliana. Al nuovo porto, nove barche su dieci restano a riva. Si cammina al buio, per strada: la corrente c’è solo per sei ore al giorno. Da luglio ad oggi, secondo le stime del ministero del Lavoro della Striscia (non riconosciuto dall’autorità palestinese di Ramallah), i disoccupati sono passati dal 26,6% al 46%. Gaza soffoca da quando, con la caduta di Mohammed Morsi in Egitto, i tunnel sotterranei di Rafah, al confine sud, con cui i Fratelli musulmani aiutavano Hamas ad aggirare l’embargo imposto da Israele sono stati distrutti. L’edilizia ha subito il colpo più duro: 30mila operai non hanno più materiali per lavorare. “Si vive alla giornata: solo quando qualcosa entrerà si potrà ricominciare”, commenta Nabil al Mabhoue, funzionario del ministero del Lavoro. Un cambiamento ci sarà già a partire da domani:  Israele ha accettato di permettere di nuovo l’importazione di materiali edili nella Striscia, secondo quanto riferito dall’inviato delle Nazioni Unite per il Medioriente, Robert Serry. I materiali verranno usati per costruire scuole, case e strutture mediche. 

Abdfattah Abu Riala è seduto alla panchina di fronte alla sede del suo sindacato, l’unione generale dei pescatori. Dentro, i suoi stanno organizzando uno sciopero affinché la Comunità internazionale metta pressione su Israele affinché dia ossigeno con del carburante l’economia di Gaza. Senza, non possono andare avanti. “Siamo il secondo settore d’impiego, dopo l’agricoltura. Sfamiamo 70mila persone nella Striscia. Da quest’estate non produciamo più del 10%”, spiega Abu Riala. Paradossale: di fronte agli occhi del pescatore, scendono da un autobus di un’agenzia di viaggi locale decine di donne, in visita alla nuova attrazione turistica della Striscia: il porto finanziato dall’emiro del Qatar. Peccato che ora sia inutilizzato in gran parte. I caseggiati attorno agli imbarcaderi sono stati costruiti con i soldi dell’ente di Cooperazione internazionale dell’Unione europea, che ha dato anche prestiti individuali da 7 mila euro per ammodernare i pescherecci più grandi. Ma è tutto fermo senza benzina: “Oggi per partire spendiamo almeno 2.500 shekel (poco più di 500 euro), ma non sappiamo se il pescato sarà sufficiente a ripagare i costi”, continua Abu Rial.

Quanto può durare quest’agonia? L’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei rifugiati palestinesi ha lanciato l’allarme già nell’agosto dello scorso anno: Gaza nel 2020 “non sarà più abitabile”, se non verranno prese urgenti misure per migliorare i servizi base che permettono la vita umana. Le acque della falda saranno tutte contaminate, i campi non più coltivabili e i 2,1 milioni di abitanti previsti non ci staranno più nei 360 chilometri quadrati della Striscia. Per invertire la tendenza, serve un evento di rottura. Come una guerra: “Ogni volta che finisce un conflitto, si riparte con il conto alla rovescia per l’inizio del prossimo – commenta, amaro, Aman Abu Amer, professore a capo del Dipartimento di Stampa e informazione dell’università islamica al Ummah, a Gaza -. Credo che il prossimo ci sarà nel giro di sei mesi, le parti in causa si stanno preparando”. Israele sta cercando in tutti i modi di portare Hamas al collasso. E l’embargo è una delle componenti del conflitto: “Più Israele controlla Gaza, maggiori responsabilità dovrà prendersi perché vengano rispettati i diritti umani dei civili”, ricorda Salit Michaeli, portavoce del centro israeliano per i diritti umani B’Tslem. Aprire i valichi sarebbe un modo per abbassare la tensione che si respira nella Striscia. Ma l’appello a un’apertura, finora, è sempre caduto nel vuoto.

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