“Siamo bloccati in Congo dal 13 novembre. Siamo qui con nostro figlio Moise, mentre la nostra primogenita Diletta ci aspetta a casa in Italia. Facciamo parte di un gruppo di 26 coppie di genitori adottivi partiti dall’Italia per conoscere e abbracciare i nostri bambini alla fine di un lungo e laborioso iter adottivo. Un percorso durato sette anni. E  ora siamo in ostaggio di un Paese senza alcuna stabilità politica. Uno Stato senza Stato, in cui purtroppo un burocrate qualsiasi può, da un momento all’altro e senza una valida motivazione legale decidere di fermare decine di persone”. Comincia così la lettera che Alessandra mi ha inviato ieri sera. Alessandra è una mamma romana che insieme al marito e ad altre coppie italiane sono partiti agli inizi di novembre per andare a prendere i loro bambini e portarli in Italia, ma sono ancora lì… abbandonati, dicono, da tutte le istituzioni.

La storia, come tutte le storie che riguardano le adozioni internazionali, parte da lontano con richieste, carte bollate e attese. Quando arriva finalmente la risposta positiva, Alessandra e il marito, vanno a conoscere il bambino che sarebbe diventato il loro secondo figlio. Un breve soggiorno nel villaggio congolese in cui si trova l’orfanotrofio e poi di nuovo in Italia ad attendere la sentenza del giudice che avrebbe permesso loro di essere una famiglia. Si preparano quindi a seguire tutte le tappe previste dalla normativa congolese. E una volta concluse preparano i bagagli. L’atteso momento è arrivato. Mamma Alessandra, papà Antonio, Diletta e il piccolo Moise potranno stare finalmente insieme.

Ma sul punto di partire a metà settembre di quest’anno la Dgm (Direction General Migration), una specie di polizia di frontiera della Repubblica congolese che regola i permessi, avvisa che per un anno i minori non potranno più uscire da lì. Hanno rilevato delle irregolarità da parte di alcuni Stati e lo hanno esteso a tutti. Anche all’Italia. Spiega però Alessandra che il nostro iter adottivo e post-adottivo, rende impossibile qualsiasi irregolarità. Iniziano quindi le trattative tra organizzazioni interessate dei due Paesi e viene fuori una lista di coppie che avevano già completato  il percorso burocratico prima della data di settembre.

Cosa succede a quel punto? “A quel punto il ministro Kyenge che è la massima autorità italiana in tema di adozioni in quanto presidente della Cai (Commissione Adozioni Internazionali) si reca in Congo agli inizi di novembre e annuncia di essere stata rassicurata dalle autorità congolesi, Dgm inclusa, che le 30 coppie della lista potevano recarsi a prendere i figli” spiega Alessandra. Cosa che fanno subito. Questi genitori, con le valigie pronte da mesi, partono. “E qui inizia la farsa, dice Alessandra. Arriviamo a Kinshasa e ci rechiamo all’orfanatrofio che ci ospiterà. Qui vivono i figli delle altre coppie mentre il nostro piccolo Moise ci raggiunge dopo pochi giorni, dopo aver affrontato un viaggio di molte ore. Riabbracciare nostro figlio dopo 14 mesi ed assistere all’incontro delle altre famiglie, è stata un’esperienza unica, indimenticabile, meravigliosa. 

Finalmente insieme, pensavamo. E per sempre. Ci prepariamo quindi al rientro. Chiediamo alla Dgm il visto di uscita e ci rispondono che ci vorranno almeno 3 settimane. Così aiutiamo le suore alla gestione quotidiana dei bambini: scuola, giochi, lavaggio, infermeria, etc e anche nei piccoli lavori di manutenzione. La sera andiamo a dormire in una casetta vicino all’orfanotrofio. La casa è molto spartana ed è priva di acqua corrente. Ci laviamo con secchi d’acqua piovana presa dalle cisterne. Facciamo la doccia quando piove. Dividiamo la stanza con altre famiglie e i bambini dormono con noi su materassi gonfiabili poggiati direttamente a terra”.

I giorni trascorrono tra lavoretti e cavilli burocratici. Una volta ottenuto anche il visto d’ingresso per l’Italia portano tutto alla Direction General Migration di Kinshasa. A quel punto non rimaneva che attendere le due settimane previste per il visto di uscita. Non passano neanche ventiquattro ore e arriva la doccia gelata. Le autorità congolesi non faranno uscire i bambini. Per loro vale l’accordo sul blocco.“Gli accordi con il Ministro Kyenge vengono di fatto sconfessati. Solo allora veniamo a sapere però che si trattava solo di accordi verbali. E anche della nostra lista …. nessuno ne sa nulla. NULLA!”. Spiega con rabbia Alessandra.

Rabbia.. delusione e impotenza. Che fare? Non rimane che iniziare a inviare richieste di aiuto a tutte le istituzioni interessate. Ma a queste richieste, spiegano da là, è seguito un silenzio “davvero assordante”. Nessuno risponde.

“Ci siamo rivolti allora a Pio Mariani, ambasciatore italiano a Kinshasa, che neanche troppo velatamente ci ha dato degli irresponsabili perché venuti in Congo a titolo personale nonostante il blocco ufficiale. Il nostro ambasciatore sostiene di aver scritto a suo tempo alla CAI intimando di non inviare coppie in Congo. Cosa la CAI abbia fatto di queste presunte comunicazioni non è dato sapere visto che noi siamo qui e non certo per nostra iniziativa.

Continua ancora Alessandra…”Dopo circa 12 giorni di silenzio totale, la Kyenge ha cominciato a dichiarare che si sta impegnando in prima persona per lo sblocco della nostra situazione, salvo poi inviarci un comunicato tramite il suo Gabinetto in cui ci dice che lei non ha mai incoraggiato nessuno a partire e che in questo momento la nostra situazione non è più un problema suo ma della Farnesina. Questo significa che un ministro italiano, presidente della CAI, a cui tutti gli Enti per adozione italiani debbono riferirsi non sa nulla della nostra partenza. Davvero poco credibile. In molti ricordano, quando tornò da Kinshasa, i comunicati con i quali si assumeva il merito di aver “sbloccato” le pratiche di 30 coppie italiane per le quali aveva ottenuto una deroga rispetto al blocco.”

E la Farnesina? “Il ministro Bonino ci ha comunicato che tiene costantemente e personalmente in osservazione la nostra situazione e che farà di tutto per permetterne il rientro in tempi brevi, naturalmente assieme ai bambini”.

Ma è di nuovo Mariani ad affondare tutte le speranze. Due giorni fa l’ambasciatore annuncia la soluzione. Potranno scegliere: o una  permanenza “sine die” nella Repubblica del Congo oppure un rientro in Italia senza bambini. La rabbia di Alessandra  è forte: “Per noi le soluzioni sono ambedue inaccettabili. Mio marito ha urgenza di rientrare in Italia per motivi di salute. E poi ci si chiede di scegliere tra i nostri figli. Qualunque  decisione si prenda, restare o tornare, uno dei due sarà lasciato solo. Se siamo in questa situazione è per la superficialità degli Enti a cui per forza di cose ti devi affidare e che peraltro abbiamo profumatamente pagato. Il blocco in Congo è chiaramente un problema politico e noi pretendiamo che il nostro Governo si attivi ai suoi massimi livelli e che interagisca al più presto con i corrispettivi congolesi. Adesso scriveremo anche al Presidente della Repubblica Napolitano perché intervenga in prima persona”.

Alessandra spera di poter tornare in Italia per Natale e riabbracciare la figlia insieme al piccolo Moise. Il piccolo ha urgente bisogno di cure. Ha quasi 6 anni  e pesa solo 15 kg. E’ spaventosamente denutrito, sotto peso e affetto da una miriade di infezioni cutanee che rischiano di lasciare strascichi permanenti sul suo organismo già debilitato.

Una brutta storia questa. Una brutta storia davvero. Ancora una volta cittadini italiani e in questo caso famiglie italiane generose in totale abbandono. Ma come si fa?  E sapete qual è la loro rabbia? “Sentire qui, scrive Alessandra, che il nostro governo si sta preoccupando dei tifosi laziali bloccati in Polonia e non di noi. Questo ci lascia ancor di più smarriti, amareggiati  e scoraggiati.” Che qualcuno si attivi… dunque! 

Articolo Precedente

Disabilità: per il governo la parola magica è ‘razionalizzazione’

next
Articolo Successivo

Parto forzato in Regno Unito: nuove famiglie, vecchie discriminazioni

next