In questi giorni ferve in rete il dibattito sull’ennesimo disastro della grafica pubblica fai-da-te, attorno al marchio per il centocinquantenario di Firenze capitale d’Italia, ritirato e sostituito a pochi giorni dalla presentazione. Un pasticcio visivo, di segni e linguaggi, ma soprattutto di leggibilità, che nel caso di un marchio non è poco rilevante.

(Nell’immagine, in alto il marchio fiorentino presentato e ritirato; in basso uno assai “simile” di un paio d’anni fa).

La questione è sempre la stessa e si propone non solo con la gestione casalinga della progettazione visiva ma anche con l’impiego ormai divenuto perverso di diversi tipi di Concorso. Questo vale per il settore pubblico, per cui siamo noi a mettere disposizione denari e ci piacerebbe ricevere un qualificato servizio, ma anche per il privato.

In relazione a questo, è scontato ricordare che esiste una professionalità specifica, quella del visual designer, che progetta logotipi, font, immagine coordinate e così via per strumenti e media tradizionali e digitali.

Nel primo caso della gestione casalinga, invece di interpellare uno o più designer, se non se ne dispone di interni, da mettere in competizione o cui affidare un incarico – come del resto avviene in tutte le professioni e nella maggioranza dei paesi del mondo – ci si arrangia in casa con un “brillante” autodidatta o, nei casi fortunati, con un architetto da spendere su più fronti. Sempre più di frequente vengono allora adottati “clip art”, in sostanza materiali già pronti e disponibili in rete cui si apportano lievi modifiche.

È questa la situazione del marchio del centocinquantenario fiorentino, ma gli esempi sono davvero numerosi; purtroppo la norma invece che l’eccezione.

Nel secondo caso, lo strumento del Concorso permette di avere risultati – la cui qualità non pare certo il criterio orientatore – a basso costo con il meccanismo finto democratico della partecipazione allargata. Con le debite differenze e proporzioni, è come se si mettesse a concorso il posto di chirurgo per fare un’operazione: e che vinca il migliore, con buona pace del paziente.

Certo ci sono i concorsi fatti con buone regole e secondo corrette pratiche, come quelli predisposti dalle associazioni di categoria, ad esempio dei visual e industrial designer o dei pubblicitari, ma sono procedure poco frequentate dai committenti perché prevedono, fra l’altro, una chiara definizione degli obiettivi, rimborsi spese per chi partecipa, giurie con competenze, magari senza il politico di turno etc. Insomma, adeguate garanzie per il lavoro svolto.

Se invece il Concorso si limita a richiedere il progetto del solo marchio e a far partecipare tutti, ci sarà poi una lunga fase di sviluppo e di declinazione della sua applicazione che in molti casi avviene poi su incarico diretto, senza gare né concorsi. Chiunque può rispondere alla facile domanda su dove si guadagnano i soldi e si piazzano gli amici.

È più o meno quello che, fatte le necessarie differenze, è avvenuto – fra i purtroppo molti esempi disponibili – dall’inguardabile cetriolo di italia.it al fatto-in-proprio di Magic Italy fino al più recente marchio turistico per la città di Roma o alla gestione demagogica (molte teste senza competenze e idee non sono necessariamente meglio di pochi forniti di tali necessarie caratteristiche, almeno perché è il loro mestiere) di quello in corso per il logo turistico di Firenze, aperto a tutti – 5000 sono stati i partecipanti alla fine – in questo caso attraverso una piattaforma online per lo svolgimento di concorsi. Al vincitore la modica cifra di 15.000 euro; importante per gli organizzatori tentare emulare il mitico “I love NY”, un logo che infatti guarda caso è stato progettato da Milton Glaser, uno dei più importanti grafici contemporanei!

In verità bisogna riconoscere che in tutto ciò i progettisti hanno una certa parte di responsabilità, innanzitutto dal punto di vista intellettuale e professionale: perché non sempre hanno saputo o voluto tutelare e difendere la dignità del proprio lavoro e ruolo. Troppo spesso infatti abbiamo conosciuto comportamenti come minimo ambigui e condiscendenti, in ogni caso poco orgogliosi di un possibile contributo di utilità e servizio per le persone e la società.

Assieme ad altri fattori “ambientali” del nostro Paese – divenuti purtroppo caratteristici ma non certo obbligati, anzi che è necessario combattere – anche questo  ha contribuito a rendere più normale “saltare” i professionisti del progetto, di frequente non adeguatamente riconosciuti e rispettati in termini culturali, sociali ed economici.

Ma la questione si pone, in modo particolarmente vistoso appunto in Italia, anche per numerose altre categorie intellettuali, proprio quando ormai è evidente la loro rilevanza e necessità, in un mondo ormai da tempo orientato verso un’“economia della conoscenza”.

L’idea che “Le idee si pagano” – e anche i progetti – come titolava un noto articolo sul Sole 24 ore dell’economista Guido Guerzoni, appare ben lontana da un quotidiano riconoscimento.

Un Paese nuovo può nascere da regole certe, dalla tutela delle competenze, dalla ricerca della qualità. Questo non sempre accade in molti ambiti, fra cui quello della progettazione; quando è pubblica riguarda tutti noi: utile essere avvertiti e accorti.
 

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