È un racconto che parte da lontano e che porta lontano, quello che vede protagonista il riccioluto songwriter Momo Said, una storia in cui la mano ferrea della necessità agita con veemenza il bussolotto del caso. Momo nasce a Casablanca nel 1982 da emigranti marocchini, ma cresce nelle Marche, in provincia di Ancona, dove inizia un proprio percorso musicale ascoltando la miriade di dischi e cassette che il padre commerciante vende nei vari mercati della regione. Con la sua terra d’origine nel cuore, il Marocco, “un punto di riferimento, un faro che illumina la mia via per il mondo”, presto inizia a studiare solfeggio, “consumando” nel periodo dell’adolescenza dischi di musica R&B, Blues, Soul, Jazz e Funk ispirandosi alle grandi voci del passato. A 18 anni acquista la sua prima chitarra “indossata a mo’ di zaino e che mi ha accompagnato ovunque, fino al giorno in cui, dopo una rovinosa caduta in skateboard, mi salvò la vita”, ed è con questa che inizia a comporre le sue canzoni.

Una passione che molto tempo dopo sfocia in Spirit, il suo disco d’esordio composto da 11 brani cantati in inglese (su tutti Father’s Love e War is Over) che raccontano un viaggio musicale – in stile reggae, ma con evidenti contaminazioni rock folk – che parte dalla sua Africa, tra migranti, nuove generazioni e spiriti liberi. Un progetto che vuole catalizzare tutti quei sentimenti assopiti dal fumo degli anni Ottanta e Novanta e la loro illusoria bolla di benessere senza sviluppo, frutto di uno strascico economico e culturale, che perde la sua armatura di fronte allo specchio del mattino, quello che tutti noi incontriamo e davanti al quale interroghiamo la nostra anima, dalla quale nessuno può nascondersi. Lo scopo di Momo Said, oltre a fare dell’ottima musica, è anche quello di sensibilizzare con grande umiltà su un argomento spinoso come quello del razzismo e delle “seconde generazioni”. E ci riesce Said, peraltro senza troppo trasgredire: ecco, verrebbe da dire, per lui non vale nemmeno la raccomandazione che Ezra Pound fece ai poeti narrativi: “Non ridite in versi mediocri ciò che è già stato detto in buona prosa”.

“Siamo testimoni di un secolo – racconta Momo Said – in cui l’immagine la fa da padrona e ne ha tutto il diritto, ma dietro alle immagini ci vogliono essere identità, geografie, storie, ma soprattutto culture. Non a caso una delle strofe conclusive del brano Spirit recita: Cultures are the lenses within read life, would you try my lenses for a while?. Il tentativo è proprio quello di spogliarsi dei propri abiti e schemi, per provare a indossare quelli degli altri e capire che sotto le molteplici maschere che indossiamo, siamo fatti tutti allo stesso modo. Amiamo, desideriamo essere amati, temiamo l’ignoto e ignoriamo che nelle nostre diversità risiedono le nostre più grandi ricchezze. Spirit è stato quasi interamente ispirato dai canti maroon dell’800, gli spirituals, la black exploitation e i durissimi anni che la accompagnano, che apparentemente sembrano anacronistici rispetto al nostro tempo. In realtà rispondono a una replica storica degli eventi vissuti dagli umani, ma tradotti sotto forme attuali, dotati di nuovi linguaggi, che viaggiano attraverso nuovi canali di comunicazione e sono soggetti alle loro leggi”.

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