Tecnicamente si definiscono fondi distressed ma nel gergo finanziario sono meglio noti come vultures, avvoltoi, per via della palese somiglianza “strategica” con la nota specie di predatori. Sono i fondi speculativi che prendono di mira i debiti in default acquistando crediti e diritti sugli asset spaventosamente svalutati. Gli speculatori comprano i titoli dai creditori, tipicamente a prezzo stracciato, alla ricerca di una successiva liquidazione a prezzo maggiorato. La differenza costituisce il profitto.

Gli esempi non mancano. Ne sanno qualcosa le casse statali della Repubblica democratica del Congo, protagoniste di una storica battaglia con la società di New York FG Hemisphere, ma ne sa qualcosa soprattutto l’Argentina, impegnata a fronteggiare con estrema difficoltà la contesa legale con il fondo Nml, di proprietà della Elliot Capital Management. La strategia tende a funzionare. Ma talvolta, evidentemente, i ruoli rischiano di invertirsi e a patire le maggiori difficoltà possono essere i fondi stessi. Esattamente come accade da cinque anni a questa parte in un Paese profondamente colpito dalla crisi ma non per questo troppo propenso a scendere facilmente a patti: l’Islanda.

La storia è tornata d’attualità negli ultimi tempi rimarcando il braccio di ferro tra il governo di Reykjavik, dallo scorso aprile guidato dai conservatori, e un’ottantina di hedge fund internazionali come Davidson Kempner, Taconic Capital e soprattutto Paulson & Co, la creatura del “mitico” John Paulson, l’uomo che, si narra a Wall Street, sarebbe riuscito nell’impresa di guadagnare un miliardo di dollari dal collasso Lehman Brothers con un investimento iniziale di appena 22 milioni di dollari in Credit default swaps, i derivati che assicurano dal rischio bancarotta. Sul tavolo, assicura Bloomberg, ci sono miliardi di dollari di asset bancari, prevalentemente concentrati in un paio di istituti. Un tesoro sul quale i fondi tentano da anni di mettere le mani. Ad oggi del tutto invano.

Un passo indietro. L’Islanda è andata incontro al default nel 2008, l’anno in cui sono fallite le sue tre grandi banche private: Landsbanki, Kaupthing e Glitnir. Un fallimento da 85 miliardi di dollari per un Paese che l’anno successivo avrebbe registrato un Pil totale di poco superiore ai 12 miliardi. La maxi bancarotta ha escluso qualsiasi possibilità materiale di salvataggio bancario costringendo il Paese a chiedere un prestito d’emergenza da 4,6 miliardi al Fmi. Il governo islandese ha quindi ha imposto un limite molto severo all’ammontare di corone convertibili in valuta estera con l’obiettivo di bloccare, o comunque limitare, le tre piaghe tipiche di ogni default sovrano che si rispetti: svalutazione, fuga di capitali e inflazione. I tre istituti, infine, sono stati scorporati secondo lo schema classico della bad bank: gli asset di valore sono finiti in nuovi istituti, quelli svalutati sono invece rimasti nelle vecchie banche. I creditori hanno ottenuto quote delle nuove banche e diritti sugli asset svalutati.

La battaglia odierna si svolge proprio attorno alla conclusione del processo di riorganizzazione. Ad oggi, segnala Bloomberg, il valore nominale degli asset reclamati dai creditori nei confronti di Glitnir e Kaupthing ammonta a 44 miliardi di dollari mentre quelli su Landsbanki sarebbero sostanzialmente trascurabili (718 milioni circa). Il valore reale degli asset totali in mano alle due banche principali si aggira sui 14 miliardi. Buona parte degli asset reclamati, precisa ancora l’agenzia, sono denominati in valuta estera ma alcuni di essi sono invece denominati in corone islandesi (per un controvalore di 3,8 miliardi di dollari) e come tali sono bloccati dai limiti sul trasferimento di valuta nazionale imposti all’alba del default. La banca centrale islandese avrebbe il potere di fare un’eccezione ma al momento non ha ancora preso alcun provvedimento.

Il governo, nel frattempo, ha deciso di bloccare anche il trasferimento degli asset in valuta estera in attesa di prendere una decisione definitiva sul fronte delle corone. Nel frattempo resta ancora da stabilire la dimensione finale del cosiddetto haircut sul valore dei titoli reclamati. Ovvero a quanta parte del valore nominale dovranno rinunciare i fondi creditori. Da qualche tempo circola l’ipotesi di un taglio definitivo del 75% che garantirebbe comunque un profitto agli investitori (visto che li hanno acquistati dai creditori originari ad un prezzo inferiore) ma per il momento non esistono certezze. Nei giorni scorsi, ha riferito ancora Bloomberg, il ministro delle finanze di Reykjavik Bjarni Benediktsson ha definito quella del 75% un’ipotesi “non ufficiale” specificando il taglio finale potrebbe essere inferiore o eventualmente anche superiore.

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