«Pop con un tocco di classico». Invertendo i termini della definizione che Liberace dava del suo stile musicale se ne ottiene una perfetta per Dietro i candelabri (dal 5 dicembre in sala), romantic story in chiave omosessuale che vale anche come parziale biopic del pianista e showman carico di talento e lustrini. Perché Steven Soderbergh, sempre indaffaratissimo tra Hollywood e Off-Hollywood, non è mai stato così rilassato nel seguire lo sviluppo dei suoi personaggi o nella scelta di un linguaggio tanto tradizionale, a dispetto di un armamentario visuale inevitabilmente esagerato. 
 
Poco conosciuto in Italia, ma arcinoto nei paesi anglosassoni, Władziu Valentino Liberace, tra gli anni Cinquanta e i Settanta, era l’entertainer più pagato del mondo, aveva un programma televisivo e non disdegnava la recitazione su piccolo e grande schermo. Profeta del kitsch e dell’esagerazione, con pellicce, paillettes e mantelli di ordinanza, non dichiarò mai la propria omosessualità: le fan credettero o finsero di credere che non si fosse mai sposato perché bruciato da un amore non corrisposto. Ma da lì a poco, le circostanze legate alla morte di Rock Hudson, prima celebrità ad aver ammesso pubblicamente di aver contratto l’Hiv, aprirono gli occhi di molti, come mostra un dettaglio davvero centrale del film. 
 
Primo titolo girato per la televisione, su HBO è passato a fine maggio, ad entrare nel concorso del Festival di Cannes, Dietro i candelabri racconta l’amore travagliato tra il pianista che, parola del protagonista Michael Douglas, «precorse gli eccessi di Elton John, Madonna e Lady Gaga» e Scott Thorson, dalla cui autobiografia è tratta la sceneggiatura di Richard LaGravenese. Dall’inizio della relazione fino alla morte per AIDS, seguiamo un racconto di affetto e finzioni, tradimenti e plastiche facciali, che non scade mai nella caricatura. Sotto agli abiti sfavillanti, ai gioielli e alle acconciature, l’ottima recitazione di Douglas e di Matt Damon – al doppiaggio si poteva fare di meglio – si ferma sempre ad un passo dall’eccesso, dalla svenevolezza, aderendo a tutta la complessità dei due uomini.
 
Distante sia dalle proprie ambizioni di autore sia dalle frenesie da shooter che lo portano a inseguire un progetto dopo l’altro, Soderbergh si limita a seguire i suoi due attori in un match di altissimo livello che sostanzia da solo un legame amoroso mostrato oltre ogni cliché. E anche quando la temperatura emotiva sale e il kitsch diventa sguardo, magari per impreziosire una sfavillante sequenza di congedo, nessun accento omofobo sporca il quadro. Una bella conquista e un esempio da seguire, specialmente in Italia, dove una legge sull’omofobia stenta a trovare la sua strada e l’omosessualità – in tutti i media – fatica ad uscire dagli stereotipi in stile Il vizietto.
 
Il bel titolo, lo stesso dell’autobiografia di Thorson, fa riferimento all’abitudine di Liberace di tenere appoggiati sul pianoforte due grandi candelabri, proprio come aveva visto fare in L’eterna armonia, pellicola di Charles Vidor sulla breve e travagliata vita di Fryderyk Chopin. 
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