“L’accordo non è stato rispettato, siamo stati presi in giro”. E allora tornano a manifestare i lavoratori della logistica di Bologna, licenziati a maggio dalle cooperative Global Logic, Planet Log e Work Project, tutte della Sgb, che gestisce i magazzini della Granarolo, “per aver protestato contro un taglio in busta paga pari al 35% dello stipendio”. L’accordo, firmato a luglio davanti al prefetto di Bologna Angelo Tranfaglia e ai sindacati confederati Cgil, Cisl e Uil, spiega il delegato Si Cobas Simone Carpegiani, “doveva portare alla ricollocazione di 23 lavoratori entro il 31 ottobre scorso, e a un impegno concreto per altri 28. Sono passati sei mesi, ma solo 9 lavoratori sono stati reintegrati, la metà dei quali con un contratto di soli tre mesi. Degli altri non si è nemmeno discusso. Noi avevamo rispettato l’impegno, interrompendo lo stato di agitazione, ma è evidente che senza lotta non ci sono risultati. Tutti i lavoratori devono essere reintegrati”. 

Alla chiamata dei 51 facchini bolognesi, 41 licenziati da Sgb e 10 finiti in cassa integrazione, affiancati da Si Cobas, Adl Cobas e Laboratorio Crash, chiamata che pone definitivamente fine alla tregua estiva stipulata in concomitanza all’accordo, hanno risposto lavoratori della logistica da tutta Italia. Tanto che il corteo che ha sfilato per Bologna al grido “Granarolo ladri” e “Legacoop, un gruppo di potere e spartizione di denaro”, era lungo quasi 600 persone. C’era chi é venuto da Milano perché “le cooperative sono come gli scafisti, non ci sono diritti ma solo obblighi e minacce”, e chi da Cesena, “dove un lavoratore della Artoni è stato licenziato per aver protestato contro le condizioni in cui siamo costretti a lavorare – racconta Nadim, facchino e tesserato Cobas – e per la mancanza di un contratto nazionale che regolamenti la categoria”. “Da nord a sud – spiega chi é partito in pullman per raggiungere Bologna – la logistica in Italia è così: turni massacranti, nessun diritto, né malattia, né permessi, e stipendi magrissimi. Dobbiamo essere uniti per cercare di cambiare le cose, separati saremo solo sconfitti”.

Il corteo é partito dal cuore della città, piazza Maggiore, e passando per via Indipendenza ha raggiunto via Marconi, in tempo per lanciare banconote finte da 20 e da 50 euro contro la Cgil, “che a maggio aveva accettato senza discutere che ci decurtassero il 35% dalle nostre buste paga”. E non importa se in seguito a quelle manifestazioni, che tra maggio e luglio maggio hanno bloccato la Centrale del Latte di Bologna, sono arrivate 160 denunce tra facchini, collettivi e Cobas, se il sostituto procuratore Antonella Scandellari indaga per i reati di violenza privata e blocco stradale con violenza, o se, come ricorda la prefettura delle Due Torri, le proteste “rendono più complicato realizzare il percorso di recupero occupazionale”.

“Siamo senza lavoro da 6 mesi – racconta un ex facchino Granarolo – non abbiamo ammortizzatori sociali né soldi per mantenere la nostra famiglia, siamo disperati. Siamo consapevoli di rischiare il permesso di soggiorno, ma tanto lo perdiamo anche se rimaniamo senza lavoro. Non ci sono molte alternative”. “In questi mesi abbiamo inviato alla Guardia di Finanza numerose denunce per intermediazione di manodopera e frode ai danni dello Stato e nessuno ci ha ascoltati – continua Carpegiani – poi però quando c’è da accusare di un reato chi si ribella alle cooperative, che dovevano essere il fiore all’occhiello di una regione rossa come l’Emilia Romagna, non si perde tempo. É un’intimidazione, e come tale la considereremo”.

“La logistica é l’esatto paradigma del lavoro migrante: disumanizzato – attacca anche il numero uno del Cobas, Aldo Milani – bene, noi non ci fermeremo finché tutti i lavoratori non saranno reintegrati”. Nessuna tregua, né passo indietro, promettono anche i facchini. “Tra noi c’è chi ha ricevuto lo sfratto o chi non ha soldi per fare la spesa. Peggio di così é difficile”, commenta Ahmed, mentre il corteo lancia fotocopie di permessi di soggiorno contro al portone della Prefettura di Bologna, garante dell’accordo di luglio. “Abbiamo cambiato Paese, ma non abbiamo perso la nostra dignità”.

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