La prima scena non l’ha dimenticata nessuno. Chi era vivo e presente in America ricorda con esattezza dov’era e che cosa faceva. Tutti gli altri, dovunque, ne hanno una memoria precisa: alcuni colpi, all’improvviso, hanno fatto esplodere una testa e un mondo. John Fitzgerald Kennedy, ucciso a Dallas da colpi sparati dall’alto mentre salutava la folla di Dallas (e accanto a lui c’erano la moglie Jacqueline e il governatore Connally) era molto più di se stesso. Per uno strano evento che neppure i biografi più affettuosi e attendibili hanno saputo spiegare, Kennedy portava con sé la Storia e, con il suo stare al centro della scena, cambiava la Storia. Bisognava mettere uno stop a questo cambiamento che minacciava di dilagare. È stato fatto. Alcuni anni dopo, mentre seguivo di tappa in tappa le elezioni primarie di Bob Kennedy, e c’era l’abitudine delle passeggiate serali con il suo cane, prima o dopo l’ultimo discorso della giornata, ho potuto notare che Bob usava sempre lo stesso modo di parlare dell’uccisione del fratello. Diceva, per esempio, “When they killed my brother…” “the day they killed my brother…” (“quando hanno ucciso mio fratello…” ) e non ho mai tentato di chiedergli “They who?”. Perché usava il plurale? Diciamo meglio: non ho osato. Perché mi ero accorto che nessuno dei Kennedy (non solo Bob, che pure era un leader appassionato e capace di dire cose durissime, ma anche Ted, fedele al suo ruolo ininterrotto di senatore, ma anche Jean Kennedy Smith, grande attivista del volontariato ma anche nella politica, poi ambasciatrice americana di Clinton a Dublino, e alle sorelle più presenti e più socialmente attive, Eunice e Pat) ha mai, una sola volta, voluto parlare del delitto o accennarne.

C’è stato un solo momento grande e alto in cui Bob Kennedy ha parlato in pubblico del delitto, l’unica volta in cui ha aperto e condotto il discorso su quel massacro (i pezzi di testa sparsi nel fondo azzurrissimo del cielo) di un uomo solo che occupava lo spazio di una generazione. Avevano appena ucciso Martin Luther King, Washington era in fiamme, nella morsa di una disperata rivolta nera.

Bob Kennedy, arrampicato prima sul cofano di una macchina, poi alla rete di un campo da gioco, con la luce da sotto di un unico faro, ha detto al microfono che uno di noi gli teneva alto: “A Dallas hanno ucciso mio fratello. A Memphis hanno ucciso un altro fratello, mio e vostro. Noi siamo travolti dal dolore. Voi conoscete il mio. Io conosco il vostro. Ma non è una ragione per uccidere. Non qui. E neppure quando facciamo i guardiani del mondo”.

La folla – prima i più giovani, tra cui molti bambini – comincia a gridare il suo nome e a ripetere “Stay here, Stay here” ( non te ne andare). E lo tenevano alto, sopra la folla. Avevano capito che in quelle parole c’erano il senso e il contesto del delitto di Dallas e del delitto di Memphis. E questo sarebbe stato, fra poco, il senso e il contesto del delitto dell’Hotel Ambassador di Los Angeles (appena due mesi dopo).

Non ho mai chiesto (adesso direi: non ho fatto in tempo a chiedere) a Bob Kennedy il perché di quel plurale quando parlava dei colpi che hanno centrato e distrutto la testa del presidente. Avrebbe potuto dirmi che, nel parlato americano, il plurale sta per l’impersonale. Dire “il giorno in cui hanno ucciso mio fratello…” non significa far pensare se quel giorno, in quel luogo, lo sparatore accusato era davvero il colpevole e non era solo. Di certo non ho mai sentito, in decenni, il nome di Oswald in conversazioni con qualcuno dei Kennedy. Probabilmente è per questo che mi sono sempre tenuto lontano dalle teorie del complotto.

Perché sono plausibili e impossibili da provare, come la versione ufficiale (il Rapporto Warren), come l’uccisione di Martin Luther King (di cui non era certo colpevole James Earl Ray, tanto che i figli di King ne hanno chiesto la scarcerazione, anni dopo). L’assassinio di Robert Kennedy, mentre aveva vinto tutte le primarie e stava per essere eletto presidente degli Stati Uniti (con la sua tenue e mai discussa verità del patriota palestinese) è diventato il chiodo che blocca le altre bare: questa è la loro morte.

Sappiamo tutto delle conseguenze, e della regolarità a cui è tornato il mondo, non solo il mondo americano, dopo l’uccisione esemplare di John, di Bob e di Martin Luther King. Ma non sappiamo nulla di quello o quelli che hanno portato la morte, e la giostra può continuare a girare. L’impressione è questa: più gira e più porta lontano. Mi ha aiutato a schivare le teorie del complotto la conversazione durata 30 anni con Arthur Schlesinger, amico da prima e amico per sempre nel dopo. Devo a lui quello che so e che ho capito e che cerco adesso di condividere. Chi ha preso la decisione di togliere di mezzo quel presidente aveva capito bene che John Kennedy provocava di per sé un cambiamento che non era un suo piano, ma era la conseguenza naturale del suo arrivo e del suo stare alla Casa Bianca. L’eroismo non sta in John Kennedy, ma nello strano e misterioso rapporto che si era formato fra Kennedy e i suoi cittadini (non tutti, di certo, ma una parte viva e attiva di essi) e che “faceva nascere nel vecchio giardino un grande albero nuovo”. John Kennedy, in apparenza (e certo in principio) meno deliberatamente innovatore di Roosevelt, seguiva però, con una certa agile intuizione, sentieri radicalmente nuovi.

Uno era il rapporto con la cultura, che mai, prima o dopo, è arrivata in forze alla Casa Bianca. Si pensi, per capire, che per un certo periodo, si erano trasferiti da Harvard a Washington sia Schlesinger sia Kissinger (anche se il periodo kennediano di Kissinger è restato poco noto). Sia McGeorge Bundy (preside della School of Art and Science di Harvard) sia lo scienziato Jerome Wiesner , non solo star del Mit, ma anche pacifista dichiarato. E Walter Rostow, forse il più noto economista del mondo accademico americano in quegli anni. Ma c’era anche la presenza ferma, benevola, priva di intonazioni tragiche (spesso un espediente della politica) e rassicurante come una garanzia. L’altro fatto nuovo era il rapporto, naturale, istintivo con le persone giovani, a cui portava la felice intuizione della “nuova frontiera” che è certo, ha contato molto nella nascita di tutta la parte mitica degli anni 60, da Camelot a Bob Dylan.

Dal Fatto Quotidiano del 10 novembre 2013

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