Bello lavorare da remoto, ovunque ci si trovi. Bello il digitale, e anche il cloud. Bello tutto, ma non abbastanza da rinunciare alla condivisione degli spazi fisici con altri professionisti, anche se non fanno parte della stessa azienda. Parte del successo del co-working, lo si deve a questo: alla necessità di incontrare persone e condividere idee, nello stesso luogo. Risparmiando. Il modello è diffuso, e in Italia diventa una realtà sempre più consolidata, che ora prova a replicare la propria esperienza all’estero. C’è la storica (dal 2008) rete Cowo, o Piano C, esperienza al femminile che aiuta anche le mamme, Openstudio e via di seguito. Alcuni spazi offrono la realizzazione concreta di progetti (vedi FabLab, o i vari makersplace), e altri, che alcuni decretano essere i modelli più riusciti, operano scelte verticali. The Hub, per esempio, riunisce co-worker che investono sull’innovazione sociale e Geekville, di Verona, è pensata per startup e freelance del settore creativo, web e mobile. E poi c’è Talent Garden (Tag), network specializzato in progetti digitali.

Nato a Brescia nel 2011, ora è presente in 7 città del Nord Italia, ma guarda all’estero. Qualche mese fa è arrivata per loro la candidatura per l’Helm 2.0, un premio per la riqualificazione di Lower Manhattan: è stato selezionato come uno dei 5 progetti internazionali più interessanti da tutto il mondo. “Per noi un’ennesima conferma del valore del progetto, da parte di chi il co-working l’ha inventato, gli americani, e ha riconosciuto in noi un’innovazione” spiega il ceo e confondatore Davide Dattoli, classe 1990. Al di là delle sorti dell’Helm 2.0, Tag ha avviato una raccolta fondi per poter aprire una sede Oltreoceano. Tornando a monte, è la condivisione fisica tra persone a fare gran parte del lavoro: “Cerchiamo di dare fisicità al digitale, riunendo in un unico spazio la comunità e le imprese italiane, piccole, medie, o grandi che siano”. “Si stima che ogni giorno nascano 5 nuovi spazi ad hoc in tutto il mondo, a cui accedono 200 nuove persone: per noi il co-working è uno strumento”.

Mezzo al quale viene aggiunto un design particolare degli spazi, e un focus sulle persone: accelerare, fare rete. Chiaro è che debba esistere un modello di sostenibilità economica: “Il nostro funziona con la membership: chi ne ha bisogno può investire in modo fisso, o flex, in base alle proprie esigenze, o ancora prendendo una “card”, ovvero una piccola cifra annuale che permette di accedere al network. I modelli sono tanti, dipende quanto si decide di investire”. Gli imprenditori dunque, e questa è la notizia, investono ancora. E le istituzioni pubbliche? “Sì, ma all’inizio ci avrebbero dato una sede nell’arco di 8/10 mesi, e adesso saremmo ancora con uno o due soli Tag in Italia”. Qui si fa alla svelta, e quindi meglio rivolgersi altrove, che New York che aspetta. L’idea, tuttavia, è di non abbandonare l’Italia: “Dobbiamo aiutare a fare crescere queste realtà sul territorio, per espandersi. Posso restare a casa mia, se il mio mercato è globale. Creando una piattaforma che mi consente di andare ovunque, ma avere una base qui”. E chissà se sia stato difficile farsi credere, a poco più di vent’anni, con un progetto del genere. “A parte l’età, la regola è sempre la stessa: quando si chiude una porta, bisogna aprirne altre tre. Dopo tutto, se fosse stato facile, l’avrebbero fatto tutti”.

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