Dal 15 settembre 2009 al 30 aprile 2010 l’Italia ha sperimentato una legalizzazione di disponibilità economiche detenute all’estero da soggetti residenti in Italia in violazione della disciplina sul monitoraggio fiscale. Sono state “scudate”, in tal modo, attività (finanziarie, immobiliari ed altri investimenti) per un valore di ben 104,5 miliardi di euro, in esito alla presentazione di 206.608 dichiarazioni riservate. Tutto prendeva il via con l’articolo 13 bis della legge 78 del 2009. Desta impressione rilevare come questa norma abbia introdotto uno scudo a immagine dei contribuenti più scaltri: anonimato, segretezza, quasi nessun pericolo di essere controllati, estrema benevolenza nel sacrificio di modestissime porzioni delle risorse portate all’estero.

L’emersione delle predette attività produceva effetti estintivi delle sanzioni amministrative, tributarie e previdenziali nonché di quelle collegate alle violazioni valutarie, relativamente alle disponibilità degli importi dichiarati. Un bengodi, che nascondeva una realtà. Lo Stato aveva bisogno di risorse e non aveva la forza di recuperarle da chi gliele aveva sottratte. La questione è se sia stato stimato davvero quanto finirà per costare questa operazione, tenendo anche conto del modo in cui si è complicato gravemente, se non paralizzato, l’ordinato funzionamento del sistema antiriciclaggio. Con il perfezionamento dello scudo restava esclusa anche la punibilità per molti reati tributari, per molti reati contro la fede pubblica e societari, quando commessi per eseguire od occultare i predetti reati tributari, ovvero per conseguirne il profitto e riferiti alla stessa pendenza o situazione tributaria. In realtà, è stato qualcosa di più di un condono, alla prova dei fatti un’immunità soggettiva talmente estesa da essersi trasformata in una condizione di intangibilità, non limitata al passato, ma estesa anche al futuro, da segnalare in maniera quasi beffarda, se ritenuto opportuno e al momento propizio, al dipendente pubblico intento a cercare un maggior imponibile o a procurarne la riscossione.

Insomma un “perdono senza confessione”. Quasi 180 mila connazionali (esattamente 179.576) hanno beneficiato dei servizi e del contributo attivo offerto per tali operazioni da intermediari, rassicurati nei loro doveri e nelle loro facoltà di discrezione. In media essi hanno legalizzato con ciascuna operazione attività per circa 400.000 euro (esattamente la media statistica si attesta su 388.600 euro). Ben 105.792 soggetti residenti in Italia hanno perfezionato richieste di rimpatrio e di regolarizzazione dalla Svizzera; 19.967 da San Marino, 11.107 dal Principato di Monaco, almeno 508 da Singapore, almeno 391 dalle Bahamas. In sostanza, un numero pari alla popolazione di un’intera di città italiana di medie dimensioni. Al soggetto che si è valso delle facoltà concesse dal provvedimento è stata assicurata un’ampia riservatezza, prolungata anche nel tempo. Informazioni segrete, conti secretati e non comunicati, dichiarazioni non più dovute per le pregresse detenzioni sanate.

Non risulta che altri Stati, tra quelli che in passato hanno varato misure analoghe (si pensi alla Francia, Regno Unito e Stati Uniti), abbiano garantito ai loro contribuenti distratti (o evasori) un anonimato tanto esteso e condizioni di regolarizzazione similmente convenienti. Per sanare le irregolarità, beneficiare della decadenza delle conseguenze penali e di uno sconto sulle altre sanzioni, altrove era stato sempre richiesto, almeno alla fine (come in Francia), di dichiarare la propria identità, l’ammontare dell’evasione e dell’infrazione, di spiegarne il meccanismo di accumulazione e di pagare le tasse arretrate con gli interessi. Ma in Italia le cose sono andate molto differentemente. A ben vedere, vi è qualcosa di buffo nel nome del modello approvato per consentire l’operazione “Dichiarazione riservata delle attività emerse”. Ciò che è “riservato”, infatti, non dovrebbe certo potersi considerare “emerso” e viceversa.

Le disposizioni sullo “scudo fiscale” si rivolgevano alle persone fisiche e agli altri soggetti fiscalmente residenti nel territorio dello Stato che, anteriormente al 31 dicembre 2008, avevano esportato o detenuto all’estero capitali e attività in violazione dei vincoli valutari e degli obblighi tributari sanciti dalle disposizioni sul cosiddetto “monitoraggio fiscale“, nonché degli obblighi di dichiarazione dei redditi imponibili di fonte estera. L'”emersione” (si fa sempre per dire) delle attività detenute all’estero poteva essere effettuata attraverso il rimpatrio oppure la regolarizzazione. Il rimpatrio poteva essere eseguito per le attività detenute all’estero, in un qualsiasi Paese europeo ovvero extraeuropeo, e consisteva nel conferire a un soggetto intermediario, tipicamente una banca, l’incarico di ricevere in custodia, deposito, amministrazione o gestione le attività medesime. In alternativa al rimpatrio, il contribuente “distrattosi per qualche tempo dai doveri tributari” poteva avvalersi della regolarizzazione delle attività che – in coerenza con i principi di diritto comunitario – intendeva comunque mantenere all’estero pur dopo la legalizzazione.

Per l’esecuzione delle operazioni di rimpatrio o di regolarizzazione, era necessario presentare un’apposita dichiarazione riservata agli intermediari abilitati che si premuravano di versare l’imposta straordinaria, fungendo da sostituti di imposta, comunicando all’amministrazione finanziaria l’ammontare complessivo delle attività rimpatriate e le somme versate, senza indicare il nominativo del soggetto che aveva presentato la dichiarazione. Una relazione ministeriale del giugno 2010 chiarisce che le operazioni di rimpatrio sono state effettuate con due differenti modalità: “rimpatrio fisico“, attraverso il conferimento dell’incarico da parte del contribuente alla custodia, deposito, amministrazione o gestione delle attività finanziarie presso un intermediario abilitato residente, una volta che dette attività sono state trasferite in Italia; “rimpatrio giuridico“, che prevede il conferimento dell’incarico appena descritto, senza necessità di procedere al materiale trasferimento della attività nel territorio dello Stato italiano. La stessa relazione ministeriale spiega che rispetto all’importo complessivo delle attività rimpatriate (102 miliardi), il 50,3 per cento ha avuto riguardo a 46.478 operazioni di “rimpatrio giuridico” (ossia senza liquidazione e rientro fisico delle risorse) per un valore assoluto di 51,362 miliardi.

Ove si esamino quattro paesi fiscalmente non collaborativi in termini amministrativi, quali sono la Svizzera, San Marino, il Principato di Monaco ed il Jersey, secondo rilevazioni al 28.5.2010, risultavano i seguenti valori di rimpatri giuridici espressi in miliardi, rispetto al valore complessivo del “rimpatriato”: per la Svizzera 36,4 su 63,7 complessivi, per San Marino 2,1 su 4,5 complessivi, per il Principato di Monaco 1,4 su 4,2 complessivi e per il Jersey 1,15 su 1,20 complessivi. Nella realtà, almeno per le operazioni di rimpatrio giuridico, per lo più gestite con l’intermediazione delle fiduciarie, i formidabili effetti estintivi e preclusivi degli scudi (utili per il passato e per gli anni successivi al loro perfezionamento) si sono prodotti senza reali doveri di documentare origine e preesistenza delle risorse sanate. Non viste dal Fisco, né prima né dopo lo scudo. Per sanare la propria posizione nell’arco temporale tra il 15 settembre 2009 e il 30 aprile 2010, il contribuente infedele ai doveri dichiarativi previsti dalla disciplina sul monitoraggio fiscale ha versato un’imposta straordinaria pari appena al 5 per cento, innalzata poi al 6 per cento e al 7 per cento, sul valore delle attività finanziarie e patrimoniali detenute all’estero a partire da una data non successiva al 31 dicembre 2008. E così lo Stato ha incassato 5,6 miliardi di euro senza vedere in volto i contribuenti “redenti”.

di Fabio Di Vizio
Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Pistoia

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