Qualche giorno fa, Rai 3: Pompei, com’è, che si fa, che si dovrebbe fare. Il responsabile del sito, una signora, non ne ricordo il nome: abbiamo fatto tantissimo. Ma come, ci sono stati crolli, rovine. Sì, ma servono soldi e personale e non li abbiamo; però lavoriamo tantissimo e bene. Della serie: facciamo il possibile ma Pompei va in rovina lo stesso. Ovviamente così può dirsi per chissà quanti siti archeologici, opere d’arte, monumenti. Tutti i giorni: l’economia va male, malissimo, malino, ci sarà una ripresa dello zero virgola, la pressione fiscale insostenibile, la crescita, il lavoro, le imprese… servono tagli… Di cosa, di quanto, non si sa. Così da una vita. Nessuno lo ha mai negato per quanto riguarda il patrimonio artistico e archeologico; e, per quanto riguarda la bancarotta dello Stato, la si ammette da quando è stato possibile imputarla alla crisi dei subprime. Della serie: non è colpa nostra, è colpa della crisi. Come se un debito pubblico di 2. 300 miliardi di euro costruito negli ultimi 20 anni non derivasse dall’incapacità e dal malaffare della nostra classe dirigente. Adesso una timida proposta: vendiamo gli stabilimenti balneari e con quei soldi copriamo il mancato gettito dell’Imu. Coro di no. Il sacro suolo, l’ambiente, la speculazione. Tutta gente che non è mai stata ad Alassio (per dire, di posti così ce ne sono migliaia). Il mare segregato da una striscia continua di palizzate e cabine, non si riesce nemmeno a vederlo: sono gli stabilimenti. Ogni tanto (il rapporto sarà di 1 a 10) c’è una striscia larga 10 metri di sabbia sporca e puzzolente: la spiaggia libera. Questo sarebbe l’ambiente da tutelare.

Mettiamoci d’accordo subito. È vero, ci sono cose che non si fanno. In realtà, che non si dovrebbero fare. Per esempio, non è giusto mercificare il corpo degli esseri umani con la prostituzione e distruggere corpo e mente con droghe. E, naturalmente, non è giusto sottrarre arte e natura al godimento di tutti i cittadini. Quindi lo Stato deve adoperarsi perché tutto questo non accada. Che si adoperi, può darsi, che ci riesca è sicuro di no. Proprio come per Pompei: lavoriamo tanto ma… Allora la domanda è: se non si riesce a impedire prostituzione, droga, rovina del patrimonio archeologico e naturale; se, nel tentativo di farlo, si spendono – inutilmente – un sacco di soldi, ha senso continuare a far finta di fare quello che è giusto, dilapidare le poche risorse pubbliche disponibili e lasciare andare in rovina persone e ambiente? Ovviamente no. L’alternativa? Dove non si può reprimere si regolamenta; dove non si può eliminare il danno, lo si riduce. La presenza di decine di migliaia di prostitute lungo le strade d’Italia rende evidente che la repressione non serve a niente; che la salute pubblica è in pericolo; che le condizioni di vita di queste persone equivalgono alla schiavitù.

Ha senso continuare con leggi che impediscono la regolamentazione di un fenomeno che non si può reprimere? Non è meglio consentire la costruzione di siti in cui la prostituzione possa essere esercitata in sicurezza e salubrità? Non è meglio tassarla recuperando somme variabili tra i 5 e i 10 miliardi di euro all’anno? Nel 2010 la Commissione Globale sulle politiche delle droghe istituita dall’Onu ha pubblicato un rapporto drammatico: “La lotta alla droga è fallita. Dal 1998 al 2008, i consumatori di oppiacei sono aumentati del 34, 5 per cento, quelli di cocaina del 27 per cento, quelli di cannabis sono passati dai 147 a 160 milioni”. Quanto sia fondata questa analisi lo si può constatare quotidianamente: per procurarsi una dose di qualsiasi cosa basta una telefonata o una sosta in piazzetta. La repressione è inutile. Ha senso continuare a riempire le carceri di minispacciatori che sono scarcerati dopo una settimana per fare posto ad altri come loro? Serve a qualcosa spendere miliardi di euro per incidere dello zero virgola sul quantitativo di droga disponibile sul mercato? Non è meglio venderla in farmacia a pochi euro, con obbligo di identificazione per i minori, eliminando così mercato clandestino e criminalità indotta? E, quanto al patrimonio artistico e naturale. Non è meglio vendere le spiagge, con l’obbligo di rispettare progetti edilizi che valorizzino l’ambiente (ogni violazione deve essere causa di risoluzione del contratto senza diritto alla restituzione di quanto pagato), piuttosto che assistere inerti al sacco del litorale in cambio di quattro soldi per le concessioni?

Non è meglio vendere i siti archeologici, addossandone i costi della manutenzione agli acquirenti, invece che contemplare il loro degrado consolandosi con “abbiamo fatto quello che abbiamo potuto?” Anche qui, ovviamente, consentendone lo sfruttamento commerciale nel rispetto vincolante di progetti predisposti dallo Stato: alberghi, ristoranti, siti commerciali; tutta roba che c’è già, spesso abusiva, quasi sempre orribile. Certo che è meglio. Ma non si fa. Per ipocrisia: lo Stato ha il compito di reprimere prostituzione e traffico di droga, di tutelare il patrimonio artistico, culturale e naturale; lo sta facendo e lo farà sempre meglio. Per demagogia: il patrimonio artistico, archeologico e naturale è di tutti; mai ne consentiremo la privatizzazione per il godimento di pochi. Per ideologia: prostituzione e droga sono peccato; non se ne può diventare complici regolamentandoli. Fantastico. Visiteremo Pompei incespicando in pezzi di mura crollate, pungendoci con siringhe abbandonate e calpestando preservativi infetti.

Il Fatto Quotidiano, 16 novembre 2013

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