Smettevamo di essere bambine prima di quanto gli adulti si augurassero. Eravamo abbastanza responsabili a quattordici quindici anni, parlo per me, perlomeno, a mio modo, lo ero. Non conoscevamo baby squillo, né ragazze-doccia (leggo con curiosità dai giornali), ma in fondo oggi chi può dirlo, chi può giurarci che non ve ne fossero nel prestigioso liceo che frequentavo? Non che il fatto ci potesse perturbare in qualche misura, a quell’età sapevamo già come girasse il mondo, nessuna di noi (parlo di me e delle ragazze con le quali si usciva la sera, anche la sera certo) temeva il plagio o la persuasione o il convincimento insomma a far qualcosa che non si volesse. Non saremmo state delle vittime, vergini trafitte sull’ara di un sistema che a quel tempo era ancor più spregiudicato, il capitalismo dei cosiddetti yankee.

E si stava dentro tutte, più o meno; per i ragazzi ad esempio il manifesto dei paninari era una specie di dogma inviolabile, qualcuno di voi ricorderà, una mandria di giovanotti conformi a una divisa molto esclusiva, niente di più classista e gretto di un liceo frequentato dalla medio-alta borghesia. Ricordo parecchie frustrazioni: guai a non indossare vere Timberland, altrimenti sarebbe stato meglio andare in giro scalzi o usare jeans Stone Island o i moncler (bella pubblicità, va bene, era necessario).

Erano tutti stilemi di una generazione votata al nulla, ma erano gli anni ’80, con quel godibile rock britannico ad assolvere tutte le futilità, erano gli anni terrificanti delle risate e degli applausi finti in tv, di Drive in, dei comici volgarotti per cui era difficile ridere e se non lo facevi eri tu lo scemo, gli anni delle tette strizzate delle ragazze coccodè. O stavi dentro, o eri fuori. Ma noi quindicenni, io e le compagne di liceo, sapevamo tutto, gli adulti dimenticano presto, ma si smette in fretta l’innocenza. Non c’erano baby squillo, c’erano mantenute, ragazze che frequentavano uomini più grandi, che da questi ottenevano regali, ed erano donne all’incirca, non sprovvedute, non troppo, non certamente vittime – o non per forza – di genitori distratti o cosa ancora.

Riproducevamo un mondo e con le medesime spietate regole degli adulti, ad ognuna di noi era chiaro che sarebbe stata sempre una questione di scelte, c’era chi aveva il fegato di farle, chi ne aveva il talento, chi meno. E’ anche una questione di natura, di capacità di produrre il “male”, di toccarlo con le mani. E’ ovvio che non mi riferisco ai casi eccezionali di coercizione e violenza (come nel caso di una delle due ragazzine, “consigliata” dalla madre). E’ sempre una questione di scelte.

La sera il sabato in discoteca, gli uomini maturi ci giravano intorno, ottenebrati dalla nostra giovinezza. Lo sapevamo, non ci avrebbero plagiato, chi sceglieva lo faceva col cervello, la nostra strada era costellata di insidie, non finivano mai. C’era la coca, l’eroina (fiumi di polvere), la gente si faceva dentro i cessi dei locali. Sapevamo tutto. Ricordo un quarantenne elegante, raffinato, un grandeur cocainomane, amava le ragazzine. Nessuna di noi ci finì a letto, lo guardavamo con compassione talvolta con divertimento. Hai una sigaretta, gli chiedevamo sfrontate. Qualcuna al massimo accettava da bere, per poi mollarlo, lui era contento così. Avevamo quindici anni. E’ sempre una questione di scelte.

 

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