Se volete capire quanto la politica è distante dalla vita reale, chiedete a una partita Iva. Mentre i giornali discutono di Imu e di cuneo fiscale, 182. 256 persone che difficilmente possono permettersi una casa e che non hanno un datore di lavoro fisso (e quindi non beneficeranno dei piccoli sgravi governativi), si preoccupano per la loro sopravvivenza. Tra le eredità avvelenate della riforma Fornero c’è l’aumento dei contributi Inps per le partite Iva esclusive: dal 27 al 33 per cento in quattro anni, il primo scatto a gennaio 2014 da 27 a 28.

Contributi che pagano da soli, visto che non hanno alle spalle un’impresa o un singolo che e condivida l’onere. Il “popolo delle partite Iva” ha avuto una breve stagione di popolarità, quando Silvio Berlusconi fondava su questi auto-imprenditori la sua mitologia sociale. Ma prometteva soltanto di chiudere un occhio sulla fedeltà fiscale: evadete e moltiplicatevi. Dei loro problemi concreti non si occupa praticamente nessuno (unica eccezione: le inchieste di Dario Di Vico sul Corriere della Sera), politica, giornali e intellettuali sono sensibili soltanto alle istanze di operai, insegnanti, dipendenti statali e imprenditori. Eppure, secondo i calcoli di Acta, l’Associazione del terziario avanzato, la situazione di una partita Iva mono-committente iscritta alla gestione separata Inps non è migliore di quella di un cassintegrato Fiat di Pomigliano. Una partita Iva residente a Roma, 1. 000 euro di incassi mensili, 12 mila annui, ha un reddito disponibile di 545 euro al mese. Con l’aumento dei contributi ne avrà 485. Affittare una stanza (non una casa) a Roma costa almeno 500 euro al mese. Con 1. 000 euro di stipendio un dipendente a tempo indeterminato, sempre residente a Roma, ha un reddito mensile disponibile di 811 euro. Morale: se le politiche anti-crisi hanno lo scopo di rimettere un po’ di soldi in tasca a chi non ce la fa ed è pronto a trasformarli subito in consumi, aumentare i contributi su queste partite Iva è una mossa decisamente stupida.

Oltre che ingiusta, visto che le partite Iva si moltiplicano in Italia soprattutto a causa di datori di lavoro che impongono la massima precarietà, rifiutandosi perfino di fare contratti di collaborazione o a progetto. Trecento organizzazioni, a cominciare da Acta, ma anche la Consulta del lavoro professionale della Cgil, hanno lanciato la campagna “Dica: no 33, per bloccare l’aumento dei contributi. Ha aderito il membro del governo più a sinistra, il viceministro dell’Economia Stefano Fassina (Pd), che promette una riforma strutturale. Chissà se il governo Letta troverà il tempo di occuparsene, tra Imu e cuneo fiscale.

Twitter @ stefanofeltri

Da Il Fatto Quotidiano, 6 novembre 2013

Articolo Precedente

Una Internet tax contro l’Europa e contro il futuro

next
Articolo Successivo

Oltre il Pil: ma dov’è la politica?

next