Scrive Massimo Fini che, per una volta tanto, non sta con Marco Travaglio ma con Annamaria Cancellieri. Scrive anche che Travaglio, nel suo articolo del 3 novembre, avrebbe paragonato la vicenda del ministro della Giustizia a quella di Berlusconi, quando telefonò alla questura di Milano, ma dev’essere stata una svista perché, rileggendo l’articolo incriminato, non ho trovato il paragone. 

Tuttavia ci sono altri aspetti nel pezzo di Fini che travalicano l’attualità e su su cui vale la pena soffermarsi perché sono meritevoli di attenzione e riflessione, per esempio quando vuol ricordare a Travaglio ciò che gli disse una volta Don Giussani“L’errore è una verità impazzita” frase che poi commenta scrivendo: “Portare un principio alle sue conseguenze più estreme, in nome di un’assoluta astrazione della legge, da verità si fa errore, perché diventa una cosa disumana”.

Colpisce il riferimento alla legge come qualcosa di astratto e disumano in contrapposizione, immagino, al comportamento umano, calato nella realtà concreta, di Annamaria Cancellieri. Un comportamento che il ministro ha rivendicato e difeso in un intervento pubblico accolto da scroscianti applausi: “Voglio che un ministro della Repubblica abbia il dovere di osservare le leggi dello Stato, la Costituzione, così come ha giurato, e lo debba fare fino in fondo senza cedimenti e senza nessun tentennamento, quindi massimi doveri, ma che abbia anche il diritto di essere un essere umano”.

Pareva proprio si stesse celebrando “quasi una festosa vittoria delle ragioni del cuore su quelle della legge“, per dirla con uno scrittore che, dell’essenza della legge, ha saputo raccontare meglio di un giurista e vede in certe manifestazioni un pericolo e cioè il momento liberatorio di un processo che dovrebbe portare a indebolire sempre di più la forza cogente del diritto per ascoltare sempre di più la voce di ogni singolo individuo, il suo irripetibile e ineffabile stato d’ animo che lo induce a compiere le sue azioni, pure quelle che ledono gravemente le norme e anche le persone”.

A differenza di don Giussani e Massimo Fini lo scrittore vede che La ragione – e la legge – hanno spesso più fantasia del cuore, capace solo di sentire le proprie «inestricabili complicazioni» e incapace di immaginare che esistano pure quelle altrui”.

La legge guarda lontano, ma non per questo è meno concreta:Il legislatore che punisce la corruzione negli appalti pubblici è un artista che sa immaginare la realtà, perché in quella corruzione vede non l’ astratta violazione di una norma ma, ad esempio, le cattive attrezzature di cui – causa quella corruzione – viene dotato un ospedale, in luogo di quelle efficaci che esso avrebbe avuto grazie a un’ asta corretta: dietro quel reato ci sono dunque malati curati peggio, individui concreti che soffrono. Solo la capacità di astrarre permette di capire la concretezza della vita, di sapere che esiste anche la vita concreta di chi in quel momento non possiamo vedere né toccare”.

I comportamenti emotivi, le reazioni spontanee e ricche di umanità non sono sempre le preferibili: “Chi sa vedere solo l’ immediatezza, non vede niente; chi vede solo gli alberi davanti a lui, e non è capace di pensare il bosco, non sa cosa siano quegli alberi, che magari s’ illude di conoscere bene”

Indebolire la legge, in nome dello spontaneo processo della vita che in tutti gli ambiti – individuale, politico, economico, sociale – procederebbe per il meglio significa solo lasciare i deboli alla mercé dei forti, spianare la strada alla violenza e all’ingiustizia, abbandonare la realtà all’arbitrio del più potente. Una cosa è sfoltire l’intricata selva di leggi che finiscono per essere di ostacolo a se stesse, un’ altra cosa è voler sottrarre – come spesso tende a fare pericolosamente e talora sfacciatamente il nostro governo – al controllo della legge ambiti e azioni da cui può dipendere l’ esistenza delle persone”.
 
Lo scrittore è Claudio Magris, in un articolo del 13 maggio 2002, pubblicato sul Corriere della Sera.

 

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