Alcuni hanno messo in correlazione il violento attacco terroristico che ha danneggiato civili e turisti innocenti con le politiche etniche e religiose messe in atto dalla Cina […] Questa è connivenza con i terroristi” ha tuonato ieri la portavoce del ministro degli esteri Hong Lei criticando l’editoriale della Cnn che che riportava l’incidente dello scorso 28 ottobre  a Tiananmen come un “grido di disperazione di chi vive ai margini della mostruosa macchina dello sviluppo dello Stato cinese”. E un sondaggio della Phoenix Tv di Hong Kong mostra come il 46 per cento dei cinesi si definisce “arrabbiata” per come i media occidentali hanno coperto la notizia. Intanto le misure in Xinjiang (secondo Rfa 53 arresti solo in una contea dello Xinjiang) sono state rafforzate, il China Daily descrive internet come un arma in mano ai separatisti e il professore uiguro Ilham Tohti che vive e lavora a Pechino denuncia pressioni senza precedenti da parte delle autorità cinesi.

Intanto ieri il Partito Comunista cinese ha espulso dalle proprie fila il generale Peng Yong, comandante militare dello Xinjiang e sempre Radio Free Asia (Rfa) ha detto che Usmen Hasan, l’uomo che alla guida della jeep avrebbe compiuto l’attentato con sua moglie e sua madre, avrebbe agito per vendetta personale a causa di una doppia tragedia. Hasan, 33 anni, aveva perso un familiare durante i disordini etnici del luglio 2009 nella capitale dello Xinjiang, Urumqi. In seguito, suo fratello più giovane sarebbe morto in un misterioso incidente stradale di cui Hasan avrebbe incolpato un cinese della maggioranza han e le autorità. Tra censura e informazioni non verificabili si capisce poco di tutta la faccenda. Basta però sforzarsi di tenere a mente chi sono gli uiguri e la regione dove abitano, lo Xinjiang.

 

Lo Xinjiang è una regione nordoccidentale della Cina per gran parte costituita da deserti che ospita circa 20 milioni di abitanti. Se fino agli anni Ottanta gli uiguri – la popolazione locale che ha lingua e caratteristiche somatiche turche e per lo più è di religione musulmana – costituivano oltre l’80 per cento della popolazione, oggi sono scesi a meno del 40 per cento. La chiamano “sommersione etnica” ed è la politica messa in atto da Pechino per favorire l’”integrazione” di aree a forte velleità indipendentista come il Tibet e lo Xinjiang. Ma di fatto è la politica che ha acceso una forte resitenza nelle popolazioni locali che sentono le loro tradizioni messe a rischio dalla sempre maggiore presenza dei migranti han, che per altro occupano i gradini più alti della scala sociale.

La regione dello Xinjiang, inoltre, è ricca di risorse naturali come gas e petrolio e diventerà presto uno dei principali fornitori di carbone per soddisfare la sete sempre maggiore di energia dello sviluppo cinese. E i cinesi che vi si trasferiscono mirano a beneficiare dell’indotto che le risorse locali produrranno. Ma il rapporto con il governo centrale è sempre stato complicato.

Xinjiang in cinese vuol dire Nuova Frontiera. Siamo a 3200 chilometri da Pechino che estese il suo impero fin qui la prima volta nel II secolo d.C. Era il luogo dove passava la famosa via della seta, principale rotta commerciale tra oriente e occidente dell’antichità. Da allora la sua storia è stato un susseguirsi di regni indipendenti e di dominazione cinese. L’ultima volta fu conquistato nel 1949 dall’esercito di Mao Zedong. Da allora gli uiguri sono anche ricorsi al terrorismo, cosa che dal 2001 accade sempre più frequentemente.

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