Yurek sedeva sulla medesima panca del parco, all’ombra della magnolia. I vecchi indigeni facevano gruppo più in là e non badavano agli uomini delle panche, sembravano invincibili e sempre molto giovani, ma invecchiavano subito. Rinsecchivano come strani ratti, e anche le loro donne, belle eteree erano già perdute, di quella malattia che certi scrittori chiamano spaesamento. Yurek prometteva di smetterla un giorno o l’altro con le sbronze, serrando il suo stomaco con il braccio secco e tremolante. Accanto dormiva Gregorio di Konskie, era arrivato da pochi mesi in Italia.

L’Italia che conobbe fu una città di provincia, con le strade vuote, i vecchi sulla piazza. Ma l’Italia non entrava nei sentieri del parco dove rotolavano gli ubriachi (nessuno chiedeva loro il passaporto), dove i magrebini si azzuffavano per un quartino di roba tagliato male e le puttane italiane erano corpi informi che maledivano i pederasta, in una lingua oscura. Mentre le polacche del giovedì e la domenica al parco erano il solito sollazzo per i guardoni. Questa era la città che incontrarono Yurek e Gregorio, in quegli anni di passaggio. Gregorio era un uomo aitante e spavaldo, finì curvo come Yurek, nello spazio d’un mattino. Gregorio disapprovava Yurek perché beveva vino di cantina di pessima qualità, dormiva tra i rovi e non andava in Caritas per la doccia. E odiava l’inedia di Jaruzelski, ma Jaruzelski era andato oramai, addossato al tronco della magnolia, non camminava più.

Era il suo ultimo boulevard, la prospettiva dell’infermo con le gambe in cancrena, alla fine del viaggio o della notte, come scriveva Celine. Vidi Yurek piangere come un bambino inginocchiato al cospetto di Jaruzelski che era già andato, fu la pietà in terra la loro posa, la superbia annichilita in luogo dell’uomo nudo e misericordioso, l’uomo prossimo alla luce, ne ero certa, auspicavo, trepidavo la loro resurrezione. Jaruzelski desiderava le sue gambe forti come un tempo, senza chiedersi se quel tempo fosse mai accaduto, avesse mai scandito le ore di un uomo normale, ciò nonostante felice. Yurek si sollevò con le guance scavate dalle lacrime scure, che non ebbe cura di asciugare, allora vacillò, per ritornare curvo sulla solita panca.

I vecchi più in là alzavano la voce, discutendo per qualcosa, ed era tutto molto simile a certi conviti domestici e Yurek ricordava ancora e anche fuori la bettola di Zdunek era così, si litigava bevendo, si era uomini, si apparteneva a qualcosa. Yurek era un militare, conosceva la disciplina e l’amor proprio. E la sua solitudine lo colse d’inganno, ecco tutto. Quando aveva cominciato a perdere? Quando aveva cominciato a sputare sul suo Paese, sul suo partito? Viva il socialismo, berciò. Jaruzelski lo guardava senza colpa, gli occhi una fessura. Perché, kurwa? Urlò d’un tratto Yurek, ma era tutto finito forse, domani, presto.

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