E’ tornato a incatenarsi davanti ai palazzi della Regione Emilia Romagna l’imprenditore emiliano Iorio Grulli, che il 29 maggio 2012 perse la sua azienda a causa del terremoto. E questa volta ha portato le monetine. Perché “qui – racconta – si fanno pagare i 50 centesimi per andare in bagno, e a noi ci lasciano morire sotto alle macerie del terremoto”. “Non è cambiato nulla rispetto a due settimane fa, quando venni a protestare contro la burocrazia che paralizza la ricostruzione”, racconta Grulli, titolare della Manifattura Modenese di Rovereto sulla Secchia, azienda specializzata nella produzione di passamanerie per la moda ridotta praticamente “in macerie”, “ho ricevuto solo delle promesse, le ennesime, che poi la Regione si è rimangiata”. Per questo l’imprenditore, che poco più di un anno fa, in pochi secondi perse tutto, “rischiai persino di perdere mia moglie, rimasta ferita in seguito al crollo della mia fabbrica”, è tornato. Con la sua catena, di nuovo legata al palo che sorregge la bandiera dell’Italia collocata ai piedi di viale Aldo Moro, ma anche con un nuovo cartello: “Monete da 50 centesimi da usare per i bagni pubblici con ricevuta”.

Perché oltre alla burocrazia, spiega l’imprenditore, c’è anche “la rabbia” per le spese sostenute dei gruppi consiliari della Regione Emilia Romagna con i soldi dei cittadini, sulle quali la procura di Bologna sta indagando. E per le quali i nove capigruppo, dal Pd al Pdl, dalla Lega Nord, all’Udc, al M5S sono stati iscritti nel registro degli indagati. “Noi emiliani stiamo combattendo per ricevere un aiuto dallo Stato, e mentre ci destreggiavamo alla meno peggio tra documenti e ordinanze loro, le istituzioni, cenavano a spese nostre, compravano gioielli, bottiglie di vino – spiega Grulli – che non vengano più a dirci che i soldi non ci sono”. “Per la ricostruzione i soldi non ce li hanno – continua – ma per loro, per le loro spese sì. Sono arrabbiato”.

Grulli aveva due capannoni di 3.500 metri quadrati a Rovereto, uno dei paesi più danneggiati dal terremoto. Ma oggi quei capannoni non sono altro che macerie. “In seguito al crollo – spiega – riuscimmo a salvare appena 5 macchine delle 130 che vi erano collocate”, e nonostante questo, nonostante una calo di fatturato pari all’80% “tirammo avanti, anche perché eravamo assicurati e contavamo di ripartire con i soldi del premio”. E c’era sempre la possibilità di chiedere i contributi statali. Secondo la normativa, l’ultima emanata in merito è l’ordinanza 113 del 2013 varata dal commissario alla ricostruzione Vasco Errani, però, per accedere ai finanziamenti per la ricostruzione è necessario “vincolare il premio assicurativo al progetto della Regione, il che ovviamente dilata moltissimo i tempi”. E questo era il motivo per cui Grulli aveva deciso di incatenarsi davanti a viale Aldo Moro: “i miei risparmi sono già finiti, 200.000 euro li ho spesi per avviare le pratiche per il Mude e per Sfinge, i sistemi telematici per la ricostruzione relativi, rispettivamente, al pubblico e al privato, ho dovuto sistemare la casa che era a rischio crollo, ho dovuto pagare le tasse. Non posso andare avanti così, senza soldi in cassa. Io non voglio certo guadagnarci da tutta questa storia, chiedo solo di poter spendere il denaro che ho ora, in attesa di ricevere quanto mi spetta dallo Stato”.

Un circolo vizioso che l’assessore alle Attività produttive della Regione Emilia Romagna Gian Carlo Muzzarelli aveva tentato di sbrogliare invitando Grulli a colloquio pochi giorni dopo la prima protesta, “ma non si è risolto nulla”. “Solo per ricostruire i capannoni servono 2,7 milioni di euro. In banca, grazie all’assicurazione, ne ho uno e i tecnici della Regione mi hanno detto usarlo di pagarci l’Iva, in cambio mi avrebbero riconosciuto 65.000 euro per le scorte di magazzino e 15.000 per aver dovuto temporaneamente delocalizzare la produzione, le poche macchine che ho salvato, insomma, altrove. Avevo deciso di accettare, ma poi mi hanno richiamato rimangiandosi l’offerta”. E Grulli e la sua famiglia sono punto e a capo.

“Stavolta però non me ne vado – assicura l’imprenditore – non sono qui solo per me, sono qui per la mia famiglia, per le persone che conosco e che vivono una situazione simile alla mia. Le istituzioni devono lasciarci vivere, lasciarci lavorare”.

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