Ci si strofinava promesse d’amore, ci si grattava pruriti di carne, tutti messi all’indice dal parroco, che non denunciava l’attrito dei corpi ma la musica che ne istigava il peccato. I braccianti di Santa Vittoria di Gualtieri (Reggio Emilia) son storia di fame, fatica e fortuna (di sopravvivenza): una condanna a respirare il Po cui la vita della bassa reggiana costringeva i contadini, messi al mondo nella culla del Grande Fiume, a patire un destino segnato come un solco di vòmere.

Ci si ammalava di pellagra, una dannazione che ti consuma, non di rado portandoti a morire urlando di follia, come se il diavolo ti galoppasse fino a farti scoppiare il cuore. Ma i braccianti di Santa Vittoria hanno l’intuizione di riscattare il diritto a vivere ribaltando le sorti di una eredità altrimenti marchiata a fuoco: la musica. Metamorfosi della forza fisica in dedizione allo studio: così, strumenti in groppa, avanti e indietro da Guastalla, camminando con le scarpe buone: i piedi nudi.

Nasce la leggenda dei 100 Violini di Santa Vittoria, anni ’20 e ’30 del secolo andato, quando la trasgressione era ballare abbracciati e il sangue gonfiava di petto e di patta. Diluvio di sudore, pagana acqua santa, ciocche di capelli che schioccano colpi di frusta: è il liscio. E’ storia di popolo e riscatto, dalla zappa all’archetto. Dal giogo della sorte fiorisce il talento contadino che troverà massima espressione in Arnaldo Bagnoli, capace di scomodare la veste al prete con “la pàssera”, una polka inno alla gioia del piacere di vivere, turbine orgiastico di seduzione melodica. Sono gli anni in cui nascono i festivàl, allora sì, poichè oggi non ci sono più. Magie frutto di impresari eccentirci che erigevano dal nulla, nei campi, una struttura con tetto e pavimento liscio (per far strisciare il piede). I festivàl, appunto, il cui solo scopo era quello di fare innamorare la gente. Immaginando l’odore di erba medica, luci di lampade ad acetilene, una lepre che insegue, un fagiano in amore, due corpi di danza, una chiappa morsa dal palmo del galante, un fienile a portata: val bene una scomunica innamorarsi e vivere.

Oggi questa tradizione torna a vivere nel quintetto d’archi: tre violini (Davide Bizzarri-Orfeo Bossini-Roberto Mattioli), la viola (Ciro Chiapponi), il contrabbasso (Fabio Uliano Grasselli), dove oltre al semplice concerto si aggiunge la narrazione (e fa la differenza) con la voce di chi ne ha scritto anche i testi, Orfeo Bossini. Inarrestabile, la leggenda non si esaurisce al pentagramma, non dà pace alle notti dei cinque musicanti odierni: è l’incubo ricorrente degli anni di conservatorio, quando il professore inquisiva puntando il dito e fissando a gufo “Bada di studiare e lavorare sodo… o farai una brutta fine: a suonare il liscio!”. Ebbene, i Violini di Santa Vittoria, la cui musica è fierezza e orgoglio di essere provinciali, portatori sani di una memoria che ha fatto storia, quella del liscio, quello vero, sono tornati. “Perchè noi ” come raccontano tra un valzer e una mazurka “non siamo mica avanzi di balera!!”

La storia dei Violini di Santa Vittoria è appena ricominciata e a Dio piacendo… vamolà.

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