Molto conosciuta come commediografa, fin dal successo di Art, tradotto in tutto il mondo e qui per Einaudi nel 2006, arrivata al grande pubblico nel 2011 attraverso Carnage di Roman Polanski, tratto da Il dio del massacro (Adelphi), Yasmina Reza è anche una sublime scrittrice di racconti. L’eleganza di Felici i felici (Adelphi, traduzione di Maurizia Balmelli) è spietata, nel senso che non è mai un’eleganza gratuita, di quelle che non feriscono: la voce narrante, di volta in volta diversa, va a graffiare nella vita di tutti i giorni – nella vita normale e reale, insomma – per poi tirare fuori dalla quotidianità un senso superiore (spesso un senso di disperazione). Il segreto di questa operazione forse sta in una frase: «Ho perso un amico che aveva una visione dell’esistenza. Una cosa piuttosto rara. La gente non ha una visione dell’esistenza. Ha solo delle opinioni». Ecco, Yasmina Reza, una visione dell’esistenza ce l’ha. E, proprio per questo, si permette il lusso di non avere opinioni. Non è empatica con i suoi personaggi, come molti grandi scrittori: lei i suoi personaggi non li ama e non li odia, li vede e basta. Con una nitidezza anche parecchio inquietante. Come certe persone che si guardano vivere, entra e esce dai loro pensieri, totalmente immersa eppure sempre con un piede fuori. Il risultato è una ferocia senza scampo.

I personaggi riescono sempre a dare il peggio, davanti ai suoi occhi: suona quasi un cattivo dono, se non fosse letteratura. Ma la Reza non sembra curarsene, assiste allo spettacolo imperturbabile. Una coppia intuisce l’orrore del matrimonio litigando al supermercato per un formaggio? Perfetto. Sono proprio queste ragioni basse a dar loro posture da eroi tragici, quasi greci, mentre fanno una fila (posture che durano poco però, neanche quelle sono concesse: una banale risata li riporterà in fretta al livello di tutti gli altri e al più comune silenzio). Del resto, un po’ di sana violenza è meglio che sfoggiare «una serenità a uso e consumo degli altri, un misto di conformismo e autoinganno». La Reza non si lascia mica ingannare, e i conformismi le interessano quanto l’elastico di una fionda. Mira precisa, mano ferma e fredda: colpisce in fronte i soggetti – e anche il lettore, di conseguenza.

Perfino la morte viene trattata così, come tutti gli altri avvenimenti della vita: una coppia litiga per la tomba, il marito vuole essere cremato e per la moglie è l’ennesima umiliazione: nemmeno da morto vuole starle vicino. In un racconto successivo (sono tutti intrecciati), lei si vendica mettendo l’urna in una borsa da palestra.

Quante coppie, sembra una sfida conoscitiva: «Non c’è niente di più impenetrabile di una coppia. Non riesci a capirla una coppia, neanche quando ne fai parte», dice la Reza. Che siano amanti clandestini o gente sposata da troppi anni: l’inferno è uguale. Forse, nel bilancio, è leggermente più gioioso un rapporto di sesso autodistruttivo, un tormento che non assomiglia mai al piacere, ma che ha una sua onesta vitalità. Almeno la crudeltà è dichiarata, e a tratti può rasentare la luminosità di un gioco. Ma la felicità è preclusa a tutti. «Essere felici è un talento», dice la Reza. «Non puoi essere felice in amore se non hai un talento per la felicità».  

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