Le larghe intese scricchiolano sulle ossa dei precari, quei 120mila dipendenti della pubblica amministrazione in scadenza che senza proroghe rischiano di mangiare il panettone e nulla più.  La conversione in legge del decreto 101/2013 firmato dal governo ad agosto e votato in Senato la scorsa settimana deve arrivare entro il 30 ottobre, pena la sua decadenza. Ma le divisioni all’interno delle larghe intese rischiano di stroncare ogni speranza. “Per noi il decreto sulla Pa può decadere”, è l’opinione espressa da Renato Brunetta nella capigruppo della Camera. A questo punto, ha osservato il ministro Dario Franceschini, “il quadro è cambiato”, lasciando intendere che c’è un problema politico dentro la maggioranza.

Uno schiaffo alla categoria era già arrivato con un emendamento all’art. 4 della legge 101/2013 che vincola le proroghe non solo alla copertura finanziaria degli enti ma anche alle dotazioni originariamente previste negli organici. Che nella maggior parte dei casi sono pari a zero. Se non prevedono altri posti, si va tutti a casa, come denuncia la Rete ricerca pubblica. Dopo anni di lavoro e senza paracadute. L’emendamento approvato il 17 ottobre scorso a Palazzo Madama non riguarda la scuola perché non ha piante organiche di riferimento ma inserisce per le altre categorie un ulteriore elemento di incertezza nella partita sui contratti a termine che è iniziata da tempo, ma ha subito un’accelerazione nelle ultime settimane. In vista dell’imminente scadenza di fine ottobre, e non solo. Perché i precari attendono la proroga di decine di migliaia di contratti nella Pa, negli enti di ricerca e nella sanità di lavoratori che rischiano di trovarsi alla scadenza del 31 dicembre senza occupazione e senza ammortizzatori sociali. Esodati dallo Stato per cui lavorano.

Il 24 ottobre alla Camera si è tenuta l’ennesima, tesa, seduta in commissione Lavoro, con scambi di accuse, veti e minacce tra Pd e Pdl e perfino all’interno dei singoli partiti. A proporre l’emendamento che peggiora il quadro con lo steccato delle piante organiche è stato il Pd (con qualche firma di Scelta civica), ormai diviso tra i paladini dei precari e della ricerca a tutti i costi e i più filo-governativi comandati a serrare i cordoni della borsa per non destabilizzare i conti e divaricare ancora centro sinistra e centrodestra. Una spaccatura che va al cuore del Partito democratico. Del resto, visti i numeri, la partita conta anche in termini elettorali (e nel caso del Pd congressuali). Non a caso sulla questione è intervenuto il candidato alle primarie, Pippo Civati, bacchettando governo e partito: “Chiedo al Pd di tornare ad essere coerente con quanto promesso agli elettori. Se si crede nella ricerca, si smetta di appoggiare provvedimenti che la privano di risorse umane e finanziarie. Non è sopprimendo i precari che si elimina la precarietà”. Peccato sia convinto del contrario il capogruppo Brunetta che esprime “preoccupazione per le proroghe contenute nel provvedimento, poco coerenti con il quadro finanziario delle Pa e con le politiche di riduzione della spesa”. Che sulla questione scricchiolino le larghe intese lo dimostrano quei 500 emendamenti al testo piovuti da ogni parte e in gran parte respinti. Alla fine il decreto legge passa alla Camera. Ora il testo torna al Senato.

In ogni caso sono una eco lontanissima le parole del premier Enrico Letta e del ministro D’Alia quando presentando il decreto del 1° agosto scorso annunciarono “abbiamo dato una soluzione definitiva al precariato”. In pochi ci avevano creduto perché le prospettive incerte dei precari della Pa si sono via via ristrette nel tempo, da quando l’ex ministro Patroni Griffi aveva indicato nelle tre categorie della ricerca, sanità, scuola l’emergenza da affrontare subito per scongiurare il rischio di interruzione dei servizi. Il tavolo istituito allora è caduto insieme al governo dei tecnici e il nuovo governo ha via via rimandato la questione facendo saltare paure e speranze da un provvedimento all’altro: per il ministro D’Alia la questione avrebbe ricevuto una soluzione con il decreto giovani, poi con quello del fare, infine con quello sulla stabilizzazione. E invece resta in alto mare con prospettive di naufragio nella precarietà per 120-170mila persone, aggiungendo i contratti interinali e di collaborazione. Non a caso si inizia ora parlare di una mobilitazione che parte dalla Sicilia, dove Cgil e la Funzione pubblica hanno lanciato un invito a Cisl e Uil a intraprendere “un percorso unitario di mobilitazione per affrontare problematiche che non trovano risposta nel governo”.

In realtà le organizzazioni sindacali a livello nazionale al momento sembrano stare alla finestra e lasciare che ad affannarsi (o finire contro il muro dei mancati rinnovi) siano le singole amministrazioni, i gruppi di precari che da esse dipendono e i parlamentari ai quali chiedono protezione. Perché in generale i precari della Pa sono meno rappresentati, meno visibili, meno organizzati. “La direzione politica è chiara – spiega un ricercatore di Roma che si trova in mezzo a questo mare – hanno deciso che bisogna mandare a casa le persone perché dobbiamo risparmiare. Ma farlo sul fronte dei dipendenti pubblici stabilizzati sarebbe più visibile, complicato, scoperto e troverebbero un muro. La gente inizierebbe a dire che siamo ormai come in Grecia, equivale a dichiarare fallimento. E allora cominciano a farlo dai precari che sono come dire invisibili, non hanno tessere. Del resto non si capisce perché i sindacati non si allarmino più di tanto e non facciano pressioni, perché la Camusso si accontenti di quattro ore di sciopero quando stanno mandando a casa 120mila precari della Pa”.

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