Il clown che metteva in musica follia, genio e poesia, riposa alla Certosa, accanto a Giorgio Morandi, Giosuè Carducci e Roberto Roversi, uno dei tanti che fece di Lucio “Luciodalla“. Il corpo, come aveva chiesto, è stato cremato. C’erano gli amici, una quarantina, i parenti-eredi, il compagno Marco Alemanno, Tobia Righi, Bruno Sconocchia. C’erano quelli che negli ultimi anni erano stati i compagni d’avventura di quel signora un po’ Charlot e con un genio che lo portava a essere uno dei più grandi musicisti del mondo senza poi aver affrontato gli studi per esserlo. Aveva una grande sensibilità musicale, e questo gli rendeva la vita più facile.

Era sregolato, Dalla, non è un mistero. Componeva i colori che gli passavano per la testa in quel momento. Aveva rubato alla scuola di Roversi e Paola Pallottino tutto quello che aveva potuto, prima di scrivere da solo. Con la voce e lo spartito faceva quello che voleva. Per questo era preso molto sul serio, temuto, riverito. Ma era al tempo stesso anche Lucio, o dalle parti di Bologna, semplicemente il ragno, come lo chiamavano. Con tutto quello che comporta chiamarsi Lucio. Voleva dire essere sommersi dalla sua follia, dalle rime talvolta complesse (“facendo finta che la gara sia arrivare in salute al gran finale. Mentre è già pronto Andrea con un bastone e cento denti che ti chiede di pagare”) o di una disarmante ferocia (“Buonanotte anima mia, adesso spengo la luce e così sia”). Era Lucio, quello che all’improvviso si alzava da tavola per andare chissà dove. Difficile stargli appresso. Un clown, appunto, ma senza senza gli occhi tristi della vita sotto al tendone: lui le ha rubato quanti giorni ha potuto, e lo ha fatto perché il gran finale fosse così, una cosa che le ballerine fanno sulle punte, silenziosa e volteggiante. Era sul letto, col sorriso beffardo, un dito appoggiato sulla guancia. Sembrava scherzasse. O dovesse appunto alzarsi e andare via. Invece lo ha fatto per sempre.

Per capire meglio chi fosse Lucio Dalla bisogna aver avuto a che fare con le persone che lo hanno frequentato e alle quali, lui, a modo suo, ha voluto bene. Non i rapporti d’affetto, ma quelli artistici. Come la collaborazione, nata, fatta morire e resuscitata a distanza di 30 anni. De Gregori non ha un bel carattere, è ombroso e sul palco molto più serioso di quanto poi si approcci alla vita: eppure quando prima in Banana Republic, poi con Work in Progress, anche il principe, sempre velato da quello sguardo amarognolo, sorrideva. Eccome. Sorrideva, perché Lucio era un po’ Charlie Chaplin, molto Federico Fellini e anche il Vittorio De Sica di Ladri di biciclette. Si dice eclettico, in una parola. Poliedrico, anche. Ma onestamente siamo alle banalità forzose. Dovessi immaginarlo sarebbe un clarino e una tela colorata su uno sfondo rosso.

Mettiamola così: io che lo amo e che l’ho amato, brevemente frequentato, continuo a sentire quella mancanza che ne fanno molto di più di un conoscente e, talvolta, un amico. Non poter contare su chi sai che ci sarebbe stato, rende quasi goffo il dolore, almeno ogni volta che ne senti la necessità. Così sia, mettiamola così. Magari se la spassa con Roversi, scrive e balla il tip tap, si alza ancora per uscire dalle porte del paradiso. Torno tra un attimo. Sarà altrove, ma farà quello che ha sempre fatto: Luciodalla.

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