Che andare sott’acqua sia bello lo sappiamo tutti e non devo certo essere io a dirvelo.

A chi piace il brivido della sfida alla profondità, a chi piace attenersi a quote blande per godersi tutta la vita possibile dei primi metri ancora illuminati, chi fa foto, chi fa video, chi “papereggia” semplicemente.

Spesso sento parlare di una soglia più elevata, un livello più profondo, che appassiona all’immersione. Sono sicura che anche voi lo abbiate letto, sentito se non addirittura asserito voi per primi. Il ritorno allo stato fetale, al grembo materno, al liquido amniotico dove le nostre genitrici ci hanno cresciuto e nutrito prima di metterci al mondo, in quei nove, mediamente, mesi in cui siamo girini, praticamente, e galleggiamo allegramente nell’acquiccia materna.

E dunque tornare a immergersi, riuscendo a sussistere con l’erogatore e potendo prolungare la permanenza nel fluido, infonderebbe a tanti una sensazione di benessere e tranquillità d’animo quasi primordiali.

Indubbiamente. In effetti starsene là sotto in piena armonia con la natura, come astronauti, o, appunto, feti, è una sensazione che pacifica tutto. La trasmissione dei rumori diversa dall’aria, che attutisce ogni suono, aiuta parecchio anch’essa, va detto. Ma galleggiare senza sprofondare o emergere, muoversi in un tutt’uno con l’acqua è forse la cosa più singolare, per noi mammiferi terrestri.

E senza ombra di dubbio qualche remota memoria dello sviluppo fetale tutto questo potrebbe evocarla. Personalmente non ho grando ricordi dei nove mesi nella pancia della mia mamma, ma immagino di esserci stata bella comoda, calduccia e satolla. Ed è esattamente così che mi sento in immersione: comoda, calduccia (se sono stata abbastanza furba da adeguarmi alle temperature dell’acqua con la mia attrezzatura) e satolla di felicità e benessere.

Fioriscono, sono fioriti e fioriranno molteplici studi sulla materia.

Perché siamo sempre stati attratti dall’abisso? Solo per i nove mesi amniotici? La psicanalisi ha trovato  di spiegazioni e declinato in decine di maniere questo impulso irrefrenabile che l’uomo ha verso l’acqua.

L’Oceano come simbolo dell’illimitato, dell’unità in cui le molteplicità si dissolvono e gli opposti coincidono, è molto diffusa in tutte le tradizioni mistiche per descrivere la scomparsa dei limiti dell’Io. Tra i mistici cristiani ricorre spesso l’espressione: ”Io vivo nell’Oceano di Dio come un pesce nel mare”. Definisce una condizione permanente di quiete, calma, silenzio interiore anche quando si è coinvolti in pensieri e attività rivolte al mondo esterno. Il soggetto rimane consapevole del proprio stato di coscienza, mentre simultaneamente è conscio di pensieri, sensazioni, azioni.

Dunque non solo il grembo materno, ma anche l’Oceano dentro da contrapporre al Chaos esteriore. Il famoso silenzio rotto soltanto dalle nostre bolle è tanto affascinante proprio perché antagonista dell’assordante inquinamento acustico cui siamo sottoposti in superficie? Per me sicuramente sì.

Nel mio piccolo vi suggerisco le riflessioni di questo specialista, che offre spunti di analogie fra acqua e liquido amniotico e indaga su quali siano le ragioni che giustificano l’attrazione dell’uomo per l’ambiente marino. 

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