Una delle prime accuse che vengono mosse oggi a un politico è di non saper “parlare alla gente”, di non sapere cioè esprimersi in una lingua comprensibile a tutti. Questa cosa, in linea generale, ha contribuito a traghettare il linguaggio della politica nell’invettiva, come se l’invettiva fosse l’unico registro linguistico immediatamente comprensibile alla massa delle persone. L’accusa che si rivolge ai politici che si distinguono per l’uso di un linguaggio ricercato, ancorché pacato e argomentativo, è quella di non volere rendere chiara la natura delle loro proposte, vengono cioè tacciati di voler offuscare la misteriosa realtà che si celerebbe dietro l’uso delle parole.

Trovo questa idea ottusa e pericolosa per due motivi. Il primo: il rovesciamento della realtà che è insito in questa crociata contro la ricchezza linguistica sottintende l’idea che un uso articolato, pieno e consapevole, del linguaggio sarebbe in realtà diretto alla non-comprensione. Il secondo: l’accusa storica che è stata rivolta a un certo linguaggio politico negli ultimi vent’anni è servita a mascherare i misfatti della politica; vale a dire, gli scandali degli anni Ottanta da cui è nata, per reazione, la seconda Repubblica, non erano certo la conseguenza del linguaggio usato dai politici di allora.

Mutare il linguaggio, rendendolo – sì – diretto e immediatamente comprensibile anche agli strati di popolazione a bassa scolarizzazione (ma anche trasfigurandolo in un idioma mistificatorio e privo di contenuti) è stato allora come cambiare abito senza cambiare la natura di chi lo indossa. In altri termini, la crociata contro il linguaggio cosiddetto “colto” intrapresa dalla destra italiana – e successivamente tracimata anche nel fronte opposto – che dopo vent’anni non si è ancora sopita, oltre a sottintendere un’insofferenza culturale, o meglio, un’insofferenza nei confronti di tutto ciò che esprime cultura, ha radicalmente modificato il rapporto potere-massa.

Il politologo americano Murray Edelman rimarcava che il linguaggio si definisce politico non perché usato dai politici, ma perché è il linguaggio attraverso cui si esprime una relazione di potere. La rivoluzione apportata dalla comunicazione verbale di Berlusconi, e dopo di lui Bossi e in ultima battuta Grillo e Renzi, in pratica non è una rivoluzione del linguaggio, ma è l’instaurazione di una nuova natura di rapporto tra potere e cittadini. La questione su come intendere ricchezza e povertà di linguaggio – sia che riguardi un qualsiasi essere umano che un politico – la risolve Wittgenstein fornendoci una famosa argomentazione che a me pare luminosa: i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo. 

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