In questi giorni è tornata in cima alle urgenze finanziarie italiane la necessità di ricapitalizzare il Monte dei Paschi di Siena, la cui capitalizzazione (cioè capitale netto + riserve + accantonamenti) si è ridotta drasticamente a seguito della necessità di coprire ingenti perdite derivanti da operazioni finanziarie azzardate. Indipendentemente dagli altri fatti attualmente all’esame della magistratura italiana la ricapitalizzazione della banca è diventata perciò urgente al fine di garantire l’operatività della banca stessa e il rispetto dei paremetri di liquidità e capitalizzazione stabiliti nella normativa del “Basel III” (le regole per le banche stabilite a Basilea nel 2010).

Quello che mi preme indagare in questa sede non è però la situazione contingente del Monte Paschi, ma la reale necessità di portare a compimento le riforme stabilite negli accordi del “Basel III” del maggio 2010, che hanno tracciato un percorso temporale che impone alle banche di raggiungere un livello minimo di capitalizzazione del 7% entro il 2015, insieme ad un correlato “buffer” (di operazioni a rischio moderato) da raggiungere entro il 2019.

Le regole del Basel III sono pertanto il “mare” dentro al quale le banche devono navigare dopo la tempesta del 2008. Ma, a parte qualche aggiustamento successivo al 2010 per differenziare le banche grandi da quelle meno grandi, e per allungare i termini dell’entrata a regime di quelle regole, la sostanza del Basel III ad oggi è rimasta invariata. Unica raccomandazione fatta di recente dalle banche centrali è stata quella che, oltre a rispettare i tempi stabiliti per gli incrementi nella capitalizzazione, occorre anche procedere ad una maggiore concentrazione (fusioni) delle banche per crescere anche nella dimensione.

Qui l’uomo della strada non capisce e si chiede: ma … la dimensione delle banche, non era proprio il problema che ha costretto il governo americano nel 2008 a intervenire direttamente istituendo (con denaro pubblico) un fondo “salva-banche” di 7oo/mld di dollari ad evitare il fallimento a catena delle sue maggiori banche?

Proprio cosi! Infatti hanno spiegato quella necessità con 4 parole: “Too big to fail”, cioè troppo grandi per (lasciarle) fallire.  

Il fatto è che a livello politico né in America né in Europa nessuno è riuscito a far passare una norma che imponesse un limite al dimensionamento delle banche, anche perché le banche, per essere più competitive in questo mercato finanziario, devono crescere di dimensione.

Perché? Perché una regola (non scritta) di questo settore dice che chi è piu’ grande comanda il gioco, e chi comanda il gioco ha più probabilita di vincere e guadagnare. Proprio come in certi semplici giochi con le carte. Anche se quando comandi il gioco sei più tentato di rischiare per vincere di più.

Sono proprio le operazioni finanziarie sui derivati quelle che sotto il profilo reddituale consentono di fare i più grandi guadagni nei tempi più brevi. Il rovescio della medaglia è che comportano rischi altrettanto elevati. Come è successo l’anno scorso a JP Morgan Chase sul mercato londinese, quando un suo funzionario è incappato in una perdita miliardaria (di circa 7/mld di dollari, a conti fatti) che ha messo in difficoltà l’intera banca e i suoi vertici.

Ok, qualcuno potrebbe obbiettare, ora però proprio quel caso dimostra che, con le nuove regole sulla capitalizzazione, il rischio del fallimento della banca è scongiurato, quindi se la banca perde soldi sono affari suoi.

Davvero? Siamo proprio sicuri?

Proviamo invece a considerare il fatto che la perdita di JP Morgan Chase è avvenuta in un momento di relativa tranquillità del mercato. Cosa sarebbe successo se invece quell’operazione si fosse trovata al centro di una bufera finanziaria come quelle del settembre 2008? Quanto sarebbe stata quella perdita? 10? 15? 20 miliardi?

E non è vero che nel 2008 non una ma tutte insieme le grandi banche stavano per affondare?

Possiamo davvero pensare che quell’incremento della capitalizzazione (il 3% oggi, il 4,5% nel 2019) basterebbe a coprire le perdite multi-miliardarie nel caso per niente peregrino di un nuovo scivolone di tutto il mercato finanziario? (Che potrebbe essere piu’ vicino di quel che si creda nel caso di un default sul debito degli Usa a partire da martedì 15 ottobre).  

Ma, anche senza pensare alla catastrofica ipotesi di cui sopra, possiamo già comunque pensare che essendo la maggiore liquidità proveniente dalla capitalizzazione delle banche usata per aumentare le operazioni finanziarie a breve invece che per finanziare nel medio termine le imprese, anche l’aumento di capitale avrà un effetto negativo, perché insieme al capitale netto andrà ad aumentare anche l’esposizione sui derivati, e quindi anche il correlato rischio.

L’aumento di capitale non servirà perciò né alle banche grandi né a quelle piccole a mettere al sicuro azionisti e correntisti da brutte sorprese.

Con le regole del Basel III si otterrà solo di avere banche più grandi e rischi più concentrati. Rischio che nessuna banca, in caso di crollo generalizzato del mercato come nel 2008, sarebbe in grado di sopportare coi soli mezzi propri.

Alle banche tutto sommato questo rischio non fa paura, perché intanto garantisce stipendi milionari ai suoi managers anche se dovessero viaggiare sull’orlo del fallimento, e poi perché, nel caso peggiore, arrivano le “giacche blu” del governo e tutto torna subito come prima.

Esattamente come è avvenuto tra il 2009 e il 2010.

La vera soluzione per ridurre il rischio di default delle banche sarebbe quella di tornare alla netta divisione tra banche ordinarie e banche d’affari.

Negli Usa fino al 1999 c’era la legge Glass-Steagall, in Italia il DPR 601. Ma su questa soluzione hanno messo il veto i fautori del libero mercato a tutti i costi. Costi che, naturalmente, quando arriva il conto, li devono pagare i cittadini non i managers delle banche, come abbiamo amaramente imparato in questi anni.

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