“Le condizioni del carcere di Busto Arsizio sono drammatiche, le sardine in scatola sono più comode”. Così il presidente del locale ordine degli avvocati, Walter Picco Bellazzi, sintetizza la difficile situazione in cui si trovano i detenuti della casa circondariale del basso varesotto, la stessa che a gennaio di quest’anno era finita al centro di una sentenza della Corte europea dei diritti umani di Strasburgo, che aveva condannato l’Italia per trattamento inumano e degradante di alcuni carcerati. Così il carcere di Busto Arsizio è diventato suo malgrado il simbolo del malessere dell’intero sistema carcerario italiano. Proprio quella condanna arrivata da Strasburgo, infatti, ha indotto il presidente della Repubblica a rivolgersi alle Camere per chiedere interventi tempestivi, compresi l’amnistia e l’indulto.

Ma come si vive nel carcere condannato dall’Europa? A tutti gli effetti i numeri della popolazione carceraria bustocca sono drammatici ed è lo stesso direttore Orazio Sorrentini a confermarli: “Attualmente ci siamo stabilizzati attorno alle 380 unità, a fronte di una capienza di 167, ma  in passato abbiamo toccato punte di 450 presenze”. Una situazione che l’avvocato Picco Bellazzi ha visto in prima persona lo scorso mese di luglio, durante una visita insieme ad alcuni parlamentari del territorio: “Spesso non c’è proprio lo spazio per muoversi, con celle che ospitano il doppio o il triplo delle persone che dovrebbero starci, è evidente che serve una soluzione”.

La struttura ospita stabilmente più del doppio dei detenuti rispetto alla propria capienza, arrivando nei momenti peggiori quasi al triplo. A complicare la faccenda ci sono la cronica carenza di personale e l’alto tasso di presenze straniere, che superano il 65% del totale. Una condizione ascrivibile alle particolari condizioni in cui opera il carcere: “In prima battuta c’è la vicinanza all’aeroporto internazionale di Malpensa, da dove arrivano circa un quarto degli ingressi – spiega Sorrentini -. Il nostro carcere deve sopperire poi alla condizione critica in cui versa la struttura di Varese (un carcere di fine ‘800, che a fronte di 70 posti ospita un centinaio di reclusi, ndr)”. Rispetto alla situazione di qualche mese fa qualcosa si è mosso: “E’ in corso un grande riassetto regionale – spiega il direttore -, ci sono stati movimenti da carcere a carcere che hanno riequilibrato la situazione, in più c’è molta collaborazione con la Procura e il Provveditorato, che fanno il possibile per evitare un sovraccarico della nostra struttura”. Tuttavia il contesto, già precario, potrebbe conoscere un nuovo peggioramento, come effetto indiretto dell’accorpamento dei tribunali, che ha visto estendersi la competenza del tribunale di Busto a Rho e Legnano: “Oggi il nostro ufficio matricola ha molto più lavoro perché ci sono più ingressi – spiega ancora Sorrentini -. Da un lato lo Stato modifica la competenza dei tribunali per ottimizzare la spesa, dall’altro però la coperta si scopre proprio sul sistema carcerario”.

Su un punto tutti concordano. A Busto si cerca di lavorare bene e di costruire alternative per i carcerati: “Il sovraffollamento del carcere è un dato oggettivo, ma sia l’amministrazione carceraria che gli enti esterni sono sul pezzo e da tempo si impegnano per trovare soluzioni” spiega Barbara Trebbi, presidente del consorzio Sol.Co, che lavora a stretto contatto con i detenuti occupandosi di reinserimento lavorativo. “Quando c’è un territorio che risponde le persone vivono meglio e riescono ad avere prospettive sul futuro”. Dunque a prescindere dal sovraffollamento è importante gettare un seme di speranza nel destino di un detenuto: “In una situazione di sovraffollamento, dove si respira malessere quotidiano e le tensioni sono alle stelle, vanno aumentate queste attività collaterali”. Dei 380 detenuti solo una piccola percentuale riesce a partecipare a programmi di lavoro, nel laboratorio di cioccolateria, in quello di panificazione o in quello di packaging, spiega Barbara Trebbi: “Ampliando le attività si possono migliorare le condizioni e anche la convivenza diventa più facile. In questo quadro indulto e amnistia possono essere una risposta solo se ben gestiti, con le dovute cautele del caso, ma bisogna lavorare su tutti i fronti, non c’è una ricetta magica. Non basta ad esempio costruire nuovi spazi o aprire i cancelli. Ci sono una serie di azioni fattibili che vanno attuate e in concerto”.

Anche l’avvocato Bellazzi non vede nell’amnistia una panacea in grado di mettere al riparo il sistema da recrudescenze future: “La premessa deve essere chiara: per risolvere i problemi bisogna investire risorse e mettere personale. Dai tribunali alle carceri. Credo che l’indulto non dia risposte adeguate, se deve essere fatto un atto di clemenza meglio l’amnistia. Però la prima risposta dovrebbero essere le pene alternative, togliendo le limitazioni che ci sono oggi, magari affiancandola a una depenalizzazione di alcuni reati, introducendo sanzioni pecuniarie che possano evitare il carcere”.

Secondo il direttore Orazio Sorrentini l’idea di un atto di clemenza darebbe respiro al sistema: “E’ vero che l’indulto 2006 in sostanza ha fallito, ma in questo caso si parla di amnistia e gli effetti sarebbero più consistenti” sottolineando tuttavia che ”resta la grossa incognita di molti soggetti che una volta fuori dai penitenziari non saprebbero dove andare”. La stessa legge svuota carceri a Busto Arsizio non ha prodotto effetti positivi: “Si apriva alla possibilità degli arresti domiciliari, ma non si è considerato che molti detenuti (soprattutto gli stranieri), spesso non hanno domicilio e non hanno una reale alternativa alla detenzione”. Se nemmeno gli atti di clemenza possono essere una risposta adeguata, come si risolve il problema del sovraffollamento? “Un piano per l’edilizia carceraria potrebbe essere una buona soluzione, significherebbe carceri nuove, fatte meglio. Ma assieme all’edilizia carceraria servirebbero maggiori risorse umane per educatori, psicologi, poliziotti e direttori, pensi che io sono in servizio da 16 anni, il mio concorso è stato bandito 18 anni or sono e da allora non ce ne sono più stati per la mia posizione”.

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